Fabrizio Tonello: Una Guantanamo per ogni esigenza
21 Novembre 2003
Anche se la Corte Suprema accetterà la tesi che Guantanamo è
"equiparabile" al territorio americano, questo non significa
necessariamente che i detenuti laggiù debbano godere delle garanzie di giusto
processo. La "guerra al terrorismo" iniziata l'11 settembre 2001 ha
infatti rafforzato la tendenza in atto a svuotare di significato le garanzie
costituzionali anche per i cittadini americani. Questo processo non è iniziato
dopo le Twin Towers: al contrario, per alcune categorie di "nemici
interni", parti sostanziali del Bill of Rights erano già state
tacitamente abrogate fin dagli anni Ottanta. La novità sta nell'accelerazione e
nell'ampiezza dei mutamenti. Gli arrestati dopo l'11 settembre sono stati quasi
tutti rilasciati senza che il Dipartimento della Giustizia abbia elevato alcuna
imputazione specifica al di là di violazioni della legge sull'immigrazione per
gli stranieri. Per gli americani, prendiamo il caso di Abdullah al-Muhajir, nato
José Padilla, un cittadino degli Usa detenuto dall'8 maggio 2002 e dichiarato,
per decreto presidenziale, "combattente nemico". Nel suo caso,
l'amministrazione Bush ha invocato una sentenza della Corte Suprema del 1942 per
giustificare la detenzione a tempo indeterminato e il rifiuto di consultarsi con
un avvocato .
La sentenza Ex parte Quirin [317 U.S. 1 (1942)] riguardava il caso di otto sabotatori tedeschi infiltrati sul territorio degli Stati uniti e condannati a morte da un tribunale militare. Lo status di uno di loro, americano per nascita, non fu preso in considerazione dalla Corte e la condanna per impiccagione fu eseguita. Quirin sembra tuttavia una base legale assai fragile per giustificare la detenzione a tempo indeterminato e senza che ci sia un'accusa precisa di un cittadino americano. Sessant'anni fa, l'amministrazione Roosevelt agiva nel quadro di una guerra dichiarata dal Congresso, il quale aveva esplicitamente concesso al presidente poteri straordinari per la conduzione delle operazioni militari. Non è questo il caso della "guerra al terrorismo", un concetto vago dove il nemico non è formalmente definito e la possibile conclusione lasciata a discrezione dell'amministrazione Bush. Se davvero un decreto presidenziale e un'accusa di terrorismo fossero sufficienti a mettere in un canto la Costituzione e il Bill of Rights verrebbe da chiedersi che senso abbia parlare ancora di "libertà" americane. Per questo, nel caso di Guantanamo, l'ipotesi più probabile è che la Corte se la cavi accettando la tesi che si tratta di un territorio dove la Costituzione non si applica.
Malgrado il Bill of Rights, gli Stati uniti sono il paese dove periodicamente i diritti delle minoranze considerate "aliene" vengono più sistematicamente conculcati in nome dell'emergenza. Poiché i diritti dei cittadini americani sono "inviolabili", una volta ogni generazione gli etnicamente sospetti, i dissidenti politici, o i socialmente emarginati, vengono riclassificati come non-cittadini, talvolta de jure, più spesso de facto.
L'emergenza è sempre legata a ciò che il potere dichiara essere un pericolo per l'America, considerata Terra Promessa e quindi minacciata soltanto da aggressioni o cospirazioni straniere, mai dalle proprie contraddizioni e tensioni interne. Fu così fin dal 1798 quando l'amministrazione Adams cercò di limitare la libertà di stampa ma perse le elezioni del 1800 e poi durante la guerra civile, poi a cavallo tra XIX e XX secolo con gli attentati anarchici, durante la prima guerra mondiale a danno della forte minoranza di lingua tedesca, nel 1918-20 con la Red Scare, all'inizio della Seconda guerra mondiale con le deportazioni di cittadini italiani e giapponesi, di nuovo negli anni Cinquanta col maccartismo, negli anni Settanta quando il Black Panther Party fu stroncato con la violenza.
In alcuni casi, come quello degli americani di origine giapponese, il Congresso e la Presidenza hanno chiesto scusa ai cittadini perseguitati a causa delle loro origini etniche, votando molti anni dopo delle leggi per compensarli parzialmente. Nel caso dei "crimini politici", le accuse contro i sindacalisti, o i progressisti vittime di McCarthy, sono state tacitamente ripudiate, benché tuttora gli intellettuali conservatori mantengano in vita una campagna che sostiene la colpevolezza di tutti i progressisti degli anni Cinquanta per spionaggio a favore dell'Urss.
L'attuale svolta autoritaria fa parte di un trend che risale agli anni Settanta e che aveva già trasformato il volto degli Stati uniti negli anni Ottanta con il pretesto della "guerra alla droga". La cosiddetta tolleranza zero verso il crimine, l'uso della pena di morte o di pene detentive di lunghezza assurda per punire reati come il consumo di marijuana, l'incarcerazione di quasi 3 milioni di persone, sono infatti processi in atto da decenni.
Le soluzioni autoritarie, si badi bene, sono aumentate in un periodo in cui i reati diminuivano vistosamente, probabilmente per ragioni demografiche unite al buon andamento dell'economia. A New York, per esempio, il numero di omicidi è diminuito di due terzi tra il 1992 e il 2000. La tolleranza zero va quindi vista come una risposta simbolica a paure diffuse nel corpo sociale, a cui imprenditori politici di successo hanno dato voce.
Qualche giorno fa, ci sono state proteste dopo un video-choc in cui si vede la polizia invadere, armi in pugno, una scuola e perquisire con brutalità gli studenti, in cerca di marijuana. Ma violenze istituzionali di questo tipo sono la regola piuttosto che l'eccezione: si veda, per esempio, la sentenza della Corte Suprema Department of Housing v. Rucker, (2 febbraio 2002) in cui la Corte affermava la liceità di sfrattare da un appartamento di proprietà pubblica una nonna i cui nipoti erano stati sorpresi a fumare marijuana, non nell'appartamento ma altrove. Questo si inserisce in una giurisprudenza della Corte Rehnquist in cui da una quindicina d'anni sostanzialmente si accettano varie forme di punizione degli innocenti, in nome della "guerra alla droga". La forma principale che ha preso il complesso di provvedimenti miranti a colpire il traffico e il consumo di sostanze stupefacenti è un'espansione dei metodi previsti dal Rico (Racketeer Influenced and Corrupt Organizations Act del 1962) ovvero sequestri preventivi dei beni dei sospetti, colpevolezza "per associazione" e simili.
In Department of Housing v. Rucker, il presidente della Corte William Rehnquist scrive che non occorre che le "attività legate alla droga" siano commesse, e nemmeno conosciute, dall'affittuario di un appartamento: è sufficiente, per lo sfratto da una casa di proprietà pubblica, che vengano compiute, anche a chilometri di distanza, da membri della famiglia, parenti o perfino ospiti.
I principi del Bill of Rights sul diritto a non essere sottoposti a perquisizioni arbitrarie erano stati tacitamente accantonati dal Congresso nel caso della legislazione contro gli stupefacenti (che punisce, si badi bene, anche i semplici consumatori). La Corte Suprema ha rigettato tutte le eccezioni di incostituzionalità. Una delle ultime sentenze in materia è Illinois v. McArthur, del 20 febbraio 2001, in cui veniva respinto il ricorso di un cittadino a cui la polizia aveva impedito di rientrare in casa, se non accompagnato da un poliziotto, in attesa di procurarsi un mandato di perquisizione. La Corte ha giudicato "ragionevole" l'azione della polizia.
Anche la protezione costituzionale estesa a tutti i cittadini è in pericolo: il giudice Clarence Thomas, estensore di Shaw et al. v. Murphy (18 aprile 2001), in un caso di violazione del diritto alla libertà di espressione di un detenuto, ha sentenziato che: "Poiché i problemi delle prigioni sono complessi e irrisolvibili", la magistratura deve rinunciare ad esercitare il suo controllo e invece "rimettersi al giudizio" delle autorità carcerarie. Thomas, in numerose altre occasioni, aveva manifestato l'opinione che la Costituzione americana non garantisce i detenuti neppure da violenze fisiche compiute dalle guardie.
Per quanto riguarda la Corte Suprema è quindi chiaro che nei momenti di emergenza i giudici sono ben felici di rimettersi al giudizio del governo. Nell'analizzare la "guerra al terrorismo" dichiarata dall'amministrazione Bush in risposta agli attentati dell'11 settembre non si è sottolineato abbastanza che si tratta di ben più di un artifizio retorico: in un sistema come quello americano, dove per governare occorre sempre la collaborazione di tutti e tre i poteri (legislativo, esecutivo ed anche giudiziario) le emergenze sono un potente lubrificante istituzionale. Sia il Congresso che la Corte Suprema hanno sostanzialmente abdicato alle proprie responsabilità per due anni, in nome dell'unità contro il nemico. Se ora la Corte Suprema decidesse di riprendere la propria autonomia, sarebbe un rassicurante segno di ritorno alla Costituzione: un segnale che probabilmente la Corte Rehnquist non ha affatto voglia di mandare.
La sentenza Ex parte Quirin [317 U.S. 1 (1942)] riguardava il caso di otto sabotatori tedeschi infiltrati sul territorio degli Stati uniti e condannati a morte da un tribunale militare. Lo status di uno di loro, americano per nascita, non fu preso in considerazione dalla Corte e la condanna per impiccagione fu eseguita. Quirin sembra tuttavia una base legale assai fragile per giustificare la detenzione a tempo indeterminato e senza che ci sia un'accusa precisa di un cittadino americano. Sessant'anni fa, l'amministrazione Roosevelt agiva nel quadro di una guerra dichiarata dal Congresso, il quale aveva esplicitamente concesso al presidente poteri straordinari per la conduzione delle operazioni militari. Non è questo il caso della "guerra al terrorismo", un concetto vago dove il nemico non è formalmente definito e la possibile conclusione lasciata a discrezione dell'amministrazione Bush. Se davvero un decreto presidenziale e un'accusa di terrorismo fossero sufficienti a mettere in un canto la Costituzione e il Bill of Rights verrebbe da chiedersi che senso abbia parlare ancora di "libertà" americane. Per questo, nel caso di Guantanamo, l'ipotesi più probabile è che la Corte se la cavi accettando la tesi che si tratta di un territorio dove la Costituzione non si applica.
Malgrado il Bill of Rights, gli Stati uniti sono il paese dove periodicamente i diritti delle minoranze considerate "aliene" vengono più sistematicamente conculcati in nome dell'emergenza. Poiché i diritti dei cittadini americani sono "inviolabili", una volta ogni generazione gli etnicamente sospetti, i dissidenti politici, o i socialmente emarginati, vengono riclassificati come non-cittadini, talvolta de jure, più spesso de facto.
L'emergenza è sempre legata a ciò che il potere dichiara essere un pericolo per l'America, considerata Terra Promessa e quindi minacciata soltanto da aggressioni o cospirazioni straniere, mai dalle proprie contraddizioni e tensioni interne. Fu così fin dal 1798 quando l'amministrazione Adams cercò di limitare la libertà di stampa ma perse le elezioni del 1800 e poi durante la guerra civile, poi a cavallo tra XIX e XX secolo con gli attentati anarchici, durante la prima guerra mondiale a danno della forte minoranza di lingua tedesca, nel 1918-20 con la Red Scare, all'inizio della Seconda guerra mondiale con le deportazioni di cittadini italiani e giapponesi, di nuovo negli anni Cinquanta col maccartismo, negli anni Settanta quando il Black Panther Party fu stroncato con la violenza.
In alcuni casi, come quello degli americani di origine giapponese, il Congresso e la Presidenza hanno chiesto scusa ai cittadini perseguitati a causa delle loro origini etniche, votando molti anni dopo delle leggi per compensarli parzialmente. Nel caso dei "crimini politici", le accuse contro i sindacalisti, o i progressisti vittime di McCarthy, sono state tacitamente ripudiate, benché tuttora gli intellettuali conservatori mantengano in vita una campagna che sostiene la colpevolezza di tutti i progressisti degli anni Cinquanta per spionaggio a favore dell'Urss.
L'attuale svolta autoritaria fa parte di un trend che risale agli anni Settanta e che aveva già trasformato il volto degli Stati uniti negli anni Ottanta con il pretesto della "guerra alla droga". La cosiddetta tolleranza zero verso il crimine, l'uso della pena di morte o di pene detentive di lunghezza assurda per punire reati come il consumo di marijuana, l'incarcerazione di quasi 3 milioni di persone, sono infatti processi in atto da decenni.
Le soluzioni autoritarie, si badi bene, sono aumentate in un periodo in cui i reati diminuivano vistosamente, probabilmente per ragioni demografiche unite al buon andamento dell'economia. A New York, per esempio, il numero di omicidi è diminuito di due terzi tra il 1992 e il 2000. La tolleranza zero va quindi vista come una risposta simbolica a paure diffuse nel corpo sociale, a cui imprenditori politici di successo hanno dato voce.
Qualche giorno fa, ci sono state proteste dopo un video-choc in cui si vede la polizia invadere, armi in pugno, una scuola e perquisire con brutalità gli studenti, in cerca di marijuana. Ma violenze istituzionali di questo tipo sono la regola piuttosto che l'eccezione: si veda, per esempio, la sentenza della Corte Suprema Department of Housing v. Rucker, (2 febbraio 2002) in cui la Corte affermava la liceità di sfrattare da un appartamento di proprietà pubblica una nonna i cui nipoti erano stati sorpresi a fumare marijuana, non nell'appartamento ma altrove. Questo si inserisce in una giurisprudenza della Corte Rehnquist in cui da una quindicina d'anni sostanzialmente si accettano varie forme di punizione degli innocenti, in nome della "guerra alla droga". La forma principale che ha preso il complesso di provvedimenti miranti a colpire il traffico e il consumo di sostanze stupefacenti è un'espansione dei metodi previsti dal Rico (Racketeer Influenced and Corrupt Organizations Act del 1962) ovvero sequestri preventivi dei beni dei sospetti, colpevolezza "per associazione" e simili.
In Department of Housing v. Rucker, il presidente della Corte William Rehnquist scrive che non occorre che le "attività legate alla droga" siano commesse, e nemmeno conosciute, dall'affittuario di un appartamento: è sufficiente, per lo sfratto da una casa di proprietà pubblica, che vengano compiute, anche a chilometri di distanza, da membri della famiglia, parenti o perfino ospiti.
I principi del Bill of Rights sul diritto a non essere sottoposti a perquisizioni arbitrarie erano stati tacitamente accantonati dal Congresso nel caso della legislazione contro gli stupefacenti (che punisce, si badi bene, anche i semplici consumatori). La Corte Suprema ha rigettato tutte le eccezioni di incostituzionalità. Una delle ultime sentenze in materia è Illinois v. McArthur, del 20 febbraio 2001, in cui veniva respinto il ricorso di un cittadino a cui la polizia aveva impedito di rientrare in casa, se non accompagnato da un poliziotto, in attesa di procurarsi un mandato di perquisizione. La Corte ha giudicato "ragionevole" l'azione della polizia.
Anche la protezione costituzionale estesa a tutti i cittadini è in pericolo: il giudice Clarence Thomas, estensore di Shaw et al. v. Murphy (18 aprile 2001), in un caso di violazione del diritto alla libertà di espressione di un detenuto, ha sentenziato che: "Poiché i problemi delle prigioni sono complessi e irrisolvibili", la magistratura deve rinunciare ad esercitare il suo controllo e invece "rimettersi al giudizio" delle autorità carcerarie. Thomas, in numerose altre occasioni, aveva manifestato l'opinione che la Costituzione americana non garantisce i detenuti neppure da violenze fisiche compiute dalle guardie.
Per quanto riguarda la Corte Suprema è quindi chiaro che nei momenti di emergenza i giudici sono ben felici di rimettersi al giudizio del governo. Nell'analizzare la "guerra al terrorismo" dichiarata dall'amministrazione Bush in risposta agli attentati dell'11 settembre non si è sottolineato abbastanza che si tratta di ben più di un artifizio retorico: in un sistema come quello americano, dove per governare occorre sempre la collaborazione di tutti e tre i poteri (legislativo, esecutivo ed anche giudiziario) le emergenze sono un potente lubrificante istituzionale. Sia il Congresso che la Corte Suprema hanno sostanzialmente abdicato alle proprie responsabilità per due anni, in nome dell'unità contro il nemico. Se ora la Corte Suprema decidesse di riprendere la propria autonomia, sarebbe un rassicurante segno di ritorno alla Costituzione: un segnale che probabilmente la Corte Rehnquist non ha affatto voglia di mandare.
Fabrizio Tonello
Fabrizio Tonello (1951) insegna Scienza dell'Opinione Pubblica presso l'università di Padova. Ha insegnato anche nel Dipartimento di Scienze della Comunicazione presso l'università di Bologna e nella Scuola Internazionale Superiore di …