Lorenzo Cremonesi: Così i ladri d'arte saccheggiano l'Iraq
07 Gennaio 2004
Nassiriya - «Eccoli, li abbiamo fregati!», grida l' ufficiale paracadutista del Tuscania che gli uomini chiamano «lo zio». Sulla dorsale della collina fangosa si stagliano almeno due figure. Troppo tardi per loro. I tombaroli sono talmente intenti nel lavoro di scavo che notano i tre gipponi dei Carabinieri solo all' ultimo minuto. E allora fuggono, disordinati nelle loro jallabieh scure nelle quali inciampano, confusi, impauriti. Bastano cinque minuti di corsa nel deserto inumidito dai temporali degli ultimi giorni per catturarne quattro. Sul terreno restano le loro orme, due paia di ciabatte di plastica, bottiglie d' acqua, due sacconi per mettere la refurtiva (ma questi sono vuoti) e soprattutto una decina di tombe appena aperte, lo si vede dalla terra smossa di fresco, conchiglie marine da ornamento, le ossa spezzate sul ciglio e centinaia, anzi migliaia di cocci di terracotta sparsi un po' dovunque.«Stop, fermi tutti, alt - urla - lo zio». «Guardate se hanno armi. Dove nascondono la refurtiva? Cerchiamo nel deserto», gli fa eco il maresciallo Franco Caligiore, 40 anni, che ha il compito di comandare la squadra «Vai per Cinque», una delle più note tra gli oltre 500 uomini dei Carabinieri a Nassiriya. E' loro il compito di censire e difendere il patrimonio archeologico dell' Iraq. Un patrimonio immenso, la culla della civiltà nella Mezza Luna fertile, per questo Paese dove miseria, dittatura e guerra hanno fatto della caccia ai reperti archeologici una fonte di reddito praticamente infinita. E' la miniera a cielo aperto dei poveracci. Basta una pala, uno spillone di ferro per sondare il terreno e il contatto con un ricettatore, che in cambio di un pugno di dollari compra reperti destinati a essere rivenduti sui mercati di New York, Londra e Parigi a somme favolose. Come ieri abbiamo assistito direttamente ad Al-Lham, una gigantesca necropoli sumera posta una quarantina di chilometri a sud di Nassiriya. «Sino a due mesi fa non ne sapevamo nulla. Poi i tombaroli l' hanno scoperta e grazie ai sopralluoghi con gli elicotteri italiani abbiamo visto che anche qui stava iniziando il cosiddetto effetto gruviera. Dall' alto è impressionante: il terreno appare sconvolto da centinaia, migliaia di buchi, fori, gallerie» spiega Abdulamir Al Hamdani, direttore generale delle antichità per Dhi Qar, la regione sotto controllo del distaccamento italiano. Ma oggi non c' è solo il piacere di avere fermato l' ennesimo furto. «E' la prima volta dal 12 novembre che la nostra unità arresta i tombaroli, finalmente stiamo tornando alla normalità» esclama il vicebrigadiere Paolo Maralla, 31 anni, di Bellagio. A correre con lui e gli altri nella sabbia fangosa si avverte la voglia liberatrice di riscattarsi da un incubo: quello del massacro di 17 militari (tra carabinieri e uomini dell' esercito) nell' attentato di Nassiriya. Quattro di quei caduti facevano parte della squadra della Tutela per il Patrimonio Culturale che li aveva preceduti nel periodo dalla fine di giugno a quel giorno tragico di novembre. «Loro avevano svolto un lavoro enorme, catalogato i siti, cercato di proteggerli, tentato di costituire servizi di guardia. Ma non hanno fatto in tempo a passarci le consegne. Noi siamo arrivati e loro sono morti, nell' esplosione è stata distrutta anche gran parte dei loro archivi», spiega ancora Maralla. Così l' azione di oggi diventa il riscatto dal retaggio pesante del massacro. «E' giusto commemorare i nostri morti, rispetto alle vittime. Però è anche il tempo di guardare al futuro. Noi dobbiamo agire, continuare a compiere il nostro lavoro, tenendo conto dei pericoli, ma anche senza farci troppo condizionare» taglia corto il colonnello Carmelo Burgio, comandante del contingente dei Carabinieri, più che mai deciso a rilanciare il valore della missione. E infatti già prima dell' alba un blitz di una sessantina di uomini (il meglio del Tuscania, oltre a una ventina del Gruppo di Intervento Speciale-Gis) fa irruzione in due abitazioni nel quartiere sunnita di Arido. Noi li incontriamo tra le enormi pozzanghere di acqua piovana alla periferia delle città verso le cinque e mezza, quando le prime pattuglie dei Gis abbattono a colpi di mazza una delle porte di ferro. In gergo l' hanno battezzata «Operazione Ginepro», volta a debellare una cellula di feddayin legati al vecchio regime. «Tra noi la chiamiamo Operazione Lavandaia» dice sorridente l' ufficiale al comando, colonnello Roberto Tortorella. Non c' è resistenza all' interno. In una stanza due donne piangono piano con un bambino in braccio. Tre uomini si lasciano invece ammanettare in silenzio, lo sguardo fisso, non fanno una piega neppure quando vengono scoperte alcune centinaia di tessere dell' «Iraqi Free Society Party». Più tardi saranno i traduttori e gli analisti dell' intelligence a interrogarli. Un lavoro di pazienza, fatto di contatti continui con la popolazione. Non mancano le polemiche con i comandi centrali dell' esercito a Roma, che vorrebbero trasferire tutti i carabinieri nella grande base americana di Tallil, una quindicina di chilometri a nord di Nassiriya, entro il 12 gennaio. «Non si rendono conto che così rimarremo isolati dalla popolazione?», affermano all' unisono al Tuscania. A loro dire ne è una riprova proprio il lavoro di caccia ai tombaroli. «Dobbiamo tenere i contatti con i nostri informatori, pagare le guardie, cercare i ricettatori, addestrare le forze di sicurezza locali. Se il problema è aprire il ponte vicino alla nostra base per non dare fastidio alla viabilità, chiuso sin dal giorno dell' attentato per garantire la nostra incolumità, allora basterebbe farne costruire subito uno alternativo dal Genio dell' esercito in un altro luogo» commenta il colonnello Burgio. Ieri il sopralluogo ad Al-Lham ha fatto scoprire che almeno 60 tombe sono state scoperchiate, su 1.500 stimate, infrante le giare di terracotta vecchie spesso oltre 5.000 anni e contenenti i resti dei morti, rubate le urne di ceramica con i monili d' oro e le conchiglie, sparite le tavolette cuneiformi. Uno scempio. «Dobbiamo porre fine al più presto a questo ladrocinio. Qui non si ruba solo all' Iraq, ma all' intera umanità» tuona da Bagdad l' ambasciatore italiano Mario Bondioli Osio, che da fine settembre ha assunto le funzioni di ministro della Cultura nell' amministrazione destinata a sostenere la nuova autorità irachena nella transizione verso le elezioni. E' stato lui a spingere più di ogni altro per la ricostituzione del corpo di guardie a difesa dei siti archeologici nel Paese. Due giorni fa 111 di loro hanno ricevuto il loro secondo stipendio mensile nell' ufficio del sovrintendente alle antichità nel centro di Nassiriya sotto lo sguardo vigile dei Carabinieri. Quasi 70 dollari a testa, non molti, ma meglio dei 12 dollari che ricevevano sotto Saddam. «Sì, meglio. Ma ancora pochi perché il costo della vita è cresciuto e i tombaroli spesso ci offrono paghe più alte in cambio della nostra omertà» ci confidava Fawzi Jabbar, una delle guardie più anziane. Tra poco riceveranno i fucili, le radioline, jeep e altane da piazzare sui siti più ambiti dagli «Alì Baba», come qui chiamano i ladri. Sulla collina di Al-Lham dovrebbero alternarsi 3 sentinelle. Indispensabili: basta camminare con un minimo di attenzione sul terreno argilloso per avvertire le vibrazioni delle urne sotto i piedi. Per centinaia di esse il sonno dei secoli non si è mai interrotto. Quando lasciamo il sito è trascorso mezzogiorno, l' intera operazione dura oltre 3 ore. I quattro «Alì Baba» sono seduti ammanettati sul fondo delle jeep. Il più giovane dice di avere 15 anni, di essere un beduino e chiamarsi Khadir. Trema come un fuscello e non solo per il freddo. «Poveraccio, questo ruba per fame. I veri criminali sono i mercanti in Europa e Stati Uniti» dice l' appuntato scelto Aniello Celentano. Anche «lo zio» per un attimo fa la voce grossa. «Ditemi dove avete nascosto la refurtiva» grida ancora. Poi però sarebbe pronto a lasciarli andare. «Non abbiamo il corpo del reato e in Iraq il sistema giuridico ancora non funziona» spiega. Alla fine li si conduce alla base. Almeno si prenderanno un po' di paura e la prossima volta ci penseranno due volte prima di aprire una tomba.
Lorenzo Cremonesi
Lorenzo Cremonesi (Milano, 1957), giornalista, segue dagli anni settanta le vicende mediorientali. Dal 1984 collaboratore e corrispondente da Gerusalemme del “Corriere della Sera”, a partire dal 1991 ha avuto modo …