Domenico Starnone: Che classe

20 Gennaio 2004
Il tempo pieno ora suona un po' come una formula, ma è stato il simbolo della scuola giusta, un momento importante di una lunga battaglia per il diritto di tutti a una buona istruzione. Dietro non c'era solo un modo di pensare l'insegnare e l'apprendere, dietro premeva un bisogno di mondo migliore. Le ore scolastiche crescevano e facevano posto a molte belle cose: la cura di chi resta indietro; la cooperazione per rimuovere ostacoli d'ogni natura; la convinzione che in circostanze favorevoli tutti possono ottenere buoni risultati; il sentimento che ogni successo individuale è veramente un successo solo quando lo si consegue correggendo il paese sbagliatissimo del privilegio. Certo la scuola che oggi abbiamo sotto gli occhi ha un mucchio di problemi e parlare così del tempo pieno sembra una favola per chi alle favole ci crede. Inoltre i decenni sono passati, la Moratti tende ad oscurare Gonella, il ricordo della pubblica istruzione democristiana sta sbiadendo. Male. Poiché il centro destra lì vorrebbe idealmente tornare, è bene rinfrescarci a grandi linee la memoria. Uno come Giorgio Spini, tanto per capirci, negli anni `50 giunse persino a ritenere la scuola dc più arretrata di quella fascista; l'unica preoccupazione dei ministri d'epoca - un'ossessione - era come aggirare il `senza onere per lo stato' e foraggiare le scuole private; nelle elementari compariva annualmente, senza preavviso, un sacerdote-ispettore per vedere se la maestra o il maestro avevano insegnato le preghiere fondamentali ai loro allievi; la mortalità scolastica dei figli delle classi non abbienti era raccapricciante e se proprio si sopravviveva si finiva nelle scuole di avviamento al lavoro; la mamma che nutrisse il figlio scolaro con un caffellatte al bar prima dell'entrata a scuola, veniva considerata - dai benpensanti tutto dio patria e famiglia - madre sciatta e immorale, una che travia i piccoli e nuoce al focolare domestico. In questa scuola la marcia verso l'istituzione del tempo pieno fu lunga e significativa. Ora è sbiadita anche quella, non ci ricordiamo più il movimento dei doposcuola, gli incontri e le zuffe, i tentativi di controscuola, le prime mense scolastiche, le mille esperienze di rinnovamento didattico fatte a rischio e pericolo di insegnanti volenterosi, i libri di Mario Lodi che arrivavano da Piadena, da Vho, e la facevano finita con la normale scuola del mattino, cupa, oppressiva, angosciosa, falsa. C'è rimasta in mente Barbiana, quella sì, ma con fastidio. Don Milani era un prete intrattabile, tirava schiaffoni, ragionava in funzione di una realtà contadino-montanara prossima a sparire eccetera eccetera. Anzi, la voce corrente oggi, a destra e anche in certa sinistra, è che i guai della scuola italiana cominciarono lì, come se la scuola dell'obbligo prima del 1967, prima della Lettera a una professoressa, non fosse l'orrenda scuola raccontata da Mastronardi nel Maestro di Vigevano. Di fatto, invece, a Barbiana si studiò a pieno tempo. E di lì venne la formulazione più chiara del problema di fondo dell'istruzione pubblica. Il tornitore - scrivevano i ragazzi di Barbiana sotto la guida di don Milani, ricorrendo a una metafora che anch'essa sembra di tempi remoti - non si permette di consegnare solo i pezzi che son riusciti. Altrimenti non farebbe nulla per farli riuscire tutti. Perché allora gli insegnanti, i dirigenti scolastici, i ministri possono cavarsela esibendo soltanto il successo individuale dei Pierini? Ci sono i Gianni, ci sono tutti gli altri, ed è a partire da loro, e non dai Pierini, che si vede se la scuola ha fatto bene il suo lavoro o sta buttando via il danaro. Insomma - imparammo da Barbiana - una scuola pubblica che non si dedica a tempo pieno all'istruzione di tutti, prestando la massima attenzione a chi non potrebbe istruirsi senza quella scuola, è sbagliata, è colpevole. E per sciogliere questo nodo ci siamo battuti per anni. Le tante esperienze di doposcuola in polemica con gli inutili doposcuola dei Patronati, gli insegnanti che lavoravano contro la scuola normale sperimentando una scuola nuova contribuirono tutti alla reinvenzione del tempo scolastico e alla sua necessaria dilatazione. Oggi, su quel tempo pieno, la Moratti fa la vaga, non sa che farsene, la sua pienezza le pare un lusso incompatibile con una scuola pubblica ridotta pelle e ossa. O più probabilmente non le piace perché è una formula che, se la gratti, mostra il problema dell'uguaglianza di fronte al diritto allo studio, ed evoca tutto il contrario del lasciar correre, del ciascuno per sé, del chi può può, dell'individualismo trionfante. O anche, chissà, insieme a monsignor Tonini lo giudica un attentato alla famiglia, ai tempi belli dei genitori e dei figli riuniti intorno al povero ma santo desco. Può essere, la follia restauratrice non ha limiti. Il tempo pieno, di fatto, fu pensato per una scuola che, nell'arco del giorno, avrebbe dovuto essere finalmente la casa della crescita di tutti, avrebbe dovuto stimolare cooperazione e solidarietà, avrebbe dovuto limitare gli effetti degli svantaggi di partenza, avrebbe dovuto dare a ciascuno ciò che non tutte le famiglie sono in grado di assicurare: una crescita stimolante, un'istruzione di qualità. La famiglia appunto. Il tempo pieno è stato anche un patto tra madri e scuola, tra madri e insegnanti, un servizio che ha aiutato le donne, in tre decenni, a venir fuori dal patriarcato. Se oggi, per dirla molto schematicamente, la Moratti cancellasse davvero il tempo pieno, il colpo sarebbe durissimo anche perché non poche madri o dovrebbero tornare a fare gli angeli del focolare o dovrebbero ricorrere, se se lo possono permettere, alle scuole private. Cosa del resto perfettamente coerente con lo smantellamento generale del servizio pubblico perseguito dal governo di centrodestra. Perché la scuola dovrebbe essere risparmiata? Assestando un bel colpo alla sostanza del diritto allo studio e alle conquiste delle donne, veleggiando verso il ritorno alla prevalenza della scuola del mattino, verso la fine del sostegno agli svantaggiati, verso l'avvio precoce al lavoro dei ragazzini misteriosamente incapaci e non meritevoli, si darebbe un aiuto fondamentale al decollo del business dell'istruzione, ai capitali che si torcono dalla voglia di ricavarne profitto. Il momento del resto è dei peggiori. L'opera di demolizione del centrodestra arriva quando la scuola, malgrado il suo sforzo pluridecennale per porre sotto controllo gli effetti dello svantaggio socioeconomico e culturale, sembra aver causato nel tempo soltanto la facilitazione degli studi, un'ignoranza diffusa a dispetto dei diplomi o comunque una generica educazione al consumo, abbandoni pur sempre numerosi, sbocchi scarsi sul mercato del lavoro, scontento delle intelligenze, disoccupazione intellettuale. La sinistra dal canto suo gioca da tempo in difesa, si spaventa della sua stessa storia, non chiama le cose con il loro nome, asseconda la tendenza a fingere che vengano bene i `pezzi' del tornitore - secondo la metafora di don Milani - anche quando, per le enormi difficoltà che si incontrano a fare una scuola che davvero assicuri un'istruzione di qualità a tutti, vengono male. E questo non aiuta. La scuola pubblica, se la si ama, se la si vuole salvare, va guardata con spietata lucidità. La battaglia di oggi a tutela del tempo pieno e contro l'opera devastatrice del centrodestra, giustissima, sarebbe ancora più giusta se riuscisse a riavviare la tensione verso una scuola ben fatta, rifatta. Molti insegnanti ci riescono, giorno dietro giorno, ma in solitudine, tra difficoltà enormi. E lì dove questo avviene il tempo pieno non è una formula, ma quello che volevamo che fosse: uno strumento contro quella disuguaglianza che impedisce ai più di essere realmente liberi. Non ci limitiamo a difenderlo. Ridiamogli anche significato e passione.

Domenico Starnone

Domenico Starnone (Napoli, 1943) ha fatto l’insegnante e il redattore delle pagine culturali del ‟Manifesto”. Oltre a opere narrative, ha scritto molti libri sulla vita scolastica (da cui sono stati …