Fabrizio Tonello: Elezioni Usa, una violenza alla democrazia

20 Gennaio 2004
Inizia la stagione delle primarie in vista delle elezioni presidenziali di novembre negli Stati uniti. Le primarie repubblicane non avranno storia (George W. Bush è l'unico candidato) quindi l'attenzione si concentra su quelle democratiche: domani in Iowa e, soprattutto, in New Hampshire in febbraio. Di solito, i giochi sono fatti con il SuperTuesday, il martedì di marzo in cui si vota in numerosi stati del Sud. In questi giorni i riflettori sono puntati su una mezza dozzina di candidati, tra cui il senatore John Kerry, l'ex generale Wesley Clark, il capogruppo alla Camera Dick Gephardt, l'ex governatore John Edwards. E' però Howard Dean l'unico tra i candidati democratici che abbia suscitato un qualche entusiasmo. Ex governatore del Vermont dal 1991 al 2003, Dean ha buone possibilità di prevalere sugli altri aspiranti. Medico di professione, moderato nelle questioni fiscali, popolare tra i giovani, Dean è stato un tenace oppositore dell'invasione dell'Iraq, tema su cui gli altri candidati balbettano o, addirittura, hanno votato con Bush. Dean ha iniziato la sua campagna già l'anno scorso, ha raccolto molti fondi grazie a decine di migliaia di piccole donazioni, ha il sostegno di ex presidenti come Jimmy Carter e dello sfortunato candidato del 2000, Al Gore. E' sicuramente il miglior candidato che l'America democratica e progressista possa esprimere oggi. Peccato che non possa vincere.

Il meccanismo perverso dei grandi elettori
Il motivo non è affatto il suo essere "troppo di sinistra" o la vulnerabilità nelle questioni di politica estera. La vera ragione sta nel fatto che il processo elettorale per eleggere il presidente degli Stati uniti, distorce la volontà popolare e, in questa fase storica, quasi garantisce la vittoria dei repubblicani. Bush, infatti, dispone dell'88% dei voti che servono per eleggere il presidente, più o meno in qualunque circostanza e qualunque sia l'orientamento maggioritario dell'opinione pubblica. Si ricordi che, nel 2000, la somma degli elettori che potremmo definire di centrosinistra, quelli che votarono per Al Gore oppure Ralph Nader, ottenne il 51,1% dei suffragi, una percentuale mai raggiunta dai democratici dopo il 1964. A fronte di questo risultato (che con qualsiasi altro sistema elettorale avrebbe dato la vittoria a Gore) ci fu invece l'imbroglio delle schede in Florida e la "nomina" di Bush jr. da parte della Corte suprema.
Per spiegare questa situazione, occorre partire da lontano: l'elezione del presidente non è un'elezione popolare diretta bensì un'elezione di secondo grado. Si vota per liste di delegati il cui numero è pari alla somma di deputati e senatori del singolo stato. Il pacchetto dei delegati viene attribuito al candidato presidente che abbia ottenuto anche un solo voto in più del secondo classificato. Questo meccanismo chiamato "collegio elettorale" distorce la rappresentanza a favore degli stati piccoli e rurali, oltre a permettere la vittoria di un candidato che ha ottenuto meno voti del suo avversario, come accadde nel 2000.
Il problema nasce dal fatto che uno stato con 35 milioni di abitanti (la California) è rappresentato da due senatori, esattamente come uno che non raggiunge il mezzo milione di residenti (Wyoming). Il sistema è destinato precisamente a proteggere i piccoli stati, permettendo loro di far valere le proprie ragioni almeno in una delle due camere, il Senato. Le mappe colorate che i giornali pubblicano dopo ogni tornata elettorale mostrano un continente repubblicano (tutto il Sud e l'Ovest, fino alle Montagne rocciose) con alcune roccaforti democratiche sulle due coste (California e New England). Gore ebbe 539.898 voti popolari in più, ma fu ugualmente sconfitto nel collegio elettorale
Per i democratici, la situazione è peggiorata dopo il censimento del 2000, che ha ripartito il numero dei Rappresentanti attribuendo due nuovi seggi all'Arizona e uno al Colorado (mentre l'Oklahoma ne ha perso uno). Lo stato di New York, dal canto suo, ha perso due deputati, passando da 33 a 31 grandi elettori. Nelle elezioni del prossimo novembre, circa 5 milioni di elettori repubblicani schiereranno 61 grandi elettori dietro il loro candidato, mentre circa 5 milioni e mezzo di elettori democratici potranno fornire al loro candidato soltanto 45 grandi elettori, ben 16 di meno. Si noti che, se la nuova ripartizione dei voti elettorali fosse stata in vigore nel novembre 2000, la risicatissima vittoria di Bush con 271 voti contro 267 sarebbe stata più confortevole: 278 voti a 260.
Howard Dean e il senatore Kerry vengono rispettivamente dal Vermont (al confine con il Canada) e dal Massachusetts: la loro possibilità di raccogliere voti nel Sud è minima, se non inesistente. Ed è proprio la crescita del Sud nel collegio elettorale a spiegare il dominio dei repubblicani sulla politica americana. Negli ultimi trent'anni, si è verificato uno spostamento economico e demografico importante, con milioni di nuovi cittadini che traslocavano in Texas, Florida, Georgia, Nord Carolina. Già nelle elezioni del 2000 il blocco sudista aveva raggiunto i 147 voti, ovvero il 27,3% del collegio elettorale. Nelle elezioni di quest'anno e del 2008 disporrà di sei voti supplementari, portando il proprio totale al 28,4%. Questi 153 voti elettorali del Sud rappresenteranno esattamente il triplo dei voti degli yankee (New York-Massachusetts-Connecticut).
Ciò aiuta a capire perché l'ultimo presidente democratico proveniente dal Massachusetts sia stato John Kennedy (1960) e l'ultimo originario di New York sia stato Franklin Roosevelt (1932-1944). Il partito ha preso nota: nelle ultime sette elezioni presidenziali, i candidati democratici sono stati Gore (Tennessee), Clinton (Arkansas), Dukakis (Massachusetts), Mondale (Minnesota), Carter (Georgia). Solo i sudisti Clinton e Carter hanno vinto, mentre Mondale (1984) e Dukakis (1988) subirono sconfitte senza appello. Non è un caso che Clinton quest'anno sostenga il generale Clark, che è nato in Arkansas come lui.

Il dominio del Sud e dell'Ovest
Insieme, i due blocchi di stati del Sud e dell'Ovest che ormai votano regolarmente repubblicano controllano 214 voti elettorali, il 40% del collegio, il che significa che bastano altri 57 voti, da trovare negli stati del Midwest o della costa atlantica, per entrare alla Casa bianca. Se aggiungiamo i 12 voti elettorali dell'Indiana e gli 11 di Kansas e Nebraska (che non votano per un candidato democratico da 40 anni) si arriva a 237 voti "sicuri" per il candidato repubblicano, chiunque esso sia. Bush ha quindi a disposizione l'88% dei voti che servono per eleggere il presidente, e quest'anno probabilmente vincerebbe anche senza bisogno di far appello al patriottismo post-11 settembre.
Per valutare appieno la violenza fatta alla volontà della maggioranza degli americani occorre fare un'ultima considerazione. Politicamente, gli Stati uniti sono un paese diviso in quattro parti all'incirca uguali: due non prendono parte al processo elettorale, mentre le due che partecipano riversano i loro suffragi una sui democratici e una sui repubblicani. Questi ultimi, però, godono oggi di una specie di golden share che trasforma il loro 25% dei consensi nel 100% del potere. La golden share nasce dal fatto che, a 138 anni dalla fine della guerra di Secessione, la cultura politica del Sud e dell'Ovest rimane religiosa, sciovinista, conservatrice, larvatamente razzista, ossessionata dalle armi da fuoco: tutto ciò che George Bush jr. rappresenta perfettamente sul piano simbolico.

Fabrizio Tonello

Fabrizio Tonello (1951) insegna Scienza dell'Opinione Pubblica presso l'università di Padova. Ha insegnato anche nel Dipartimento di Scienze della Comunicazione presso l'università di Bologna e nella Scuola Internazionale Superiore di …