Giulietto Chiesa: Il Social Forum mondiale di Bombay

20 Gennaio 2004
Babele è cominciata a Bombay con il quarto Social Forum mondiale. Il primo fuori da Porto Alegre, fuori dal Brasile, si può dire fuori dall’Occidente (perché, vista da questa prospettiva, Porto Alegre è molto simile all’Occidente anche se il suo problema, la fame, è tremendamente uguale a quello del subcontinente). Ma è davvero Babele, perché qui si parlano più lingue che in tutte le riunioni mondiali mai tenute nella storia dell’uomo. Nemmeno le Nazioni Unite possono vantare una tale pluralità, perché solo le lingue indiane - un continente di oltre un miliardo di individui - sono di più di quelle europee principali. Così si è inaugurato, in India, il primo comizio di massa quasi senza traduzioni, in lingue sconosciute ai più. E i 40 mila che hanno assistito all’apertura, nel sobborgo di Goregaon, città nella gigantesca città, hanno ascoltato, per esempio, gli incomprensibili discorsi di Lakhsmi Segal, di Chiko Withaker, di Mustafà Barghouti, nelle rispettive lingue, senza traduzione alcuna. Solo, ad esempio, la bella Arundhati Roy e Jeremy Cobin hanno usato l’inglese. Ma questa è la regola: non ci sono soldi per pagare le traduzioni delle migliaia di seminari, di incontri, convegni, film e rappresentazioni, dibattiti che vi si terranno. E, per giunta, in decine di lingue dell’Asia che gli occidentali arrivati fin qui non hanno mai sentito parlare. Così si salvi chi può. E in ogni caso va detto subito che lo sforzo di migliaia e migliaia di ragazzi dalla pelle bruna sembra aver fatto un miracolo nel quale molti non avevano creduto. Un conto, infatti, è organizzare un forum mondiale con un governo amico alle spalle, un conto è il contrario. Forse non ostile, ma certo indifferente, New Delhi non ha prestato aiuto in alcun modo. Non una rupia. Eppure questo è un regalo immenso per l’India, e per l’Asia tutta intera, che per la prima volta entra a viva forza nel dibattito sulla globalizzazione, facendo compiere all’intero movimento mondiale che chiede una svolta nell’idea stessa di sviluppo un salto davvero epocale. Seattle, la contestazione dei «figli dei ricchi» ai ricchi, è ormai lontana. Qui i poveri del mondo non sono solo evocati, si vedono, sono arrivati organizzati. Sono la maggioranza, come nella vita reale. Non solo giovani, ma di tutte le età. Le donne in stragrande maggioranza, operai, contadini, che queste notti le passeranno all’aperto, non come i delegati europei, in comodi alberghi per turisti. Eppure le rivendicazioni sono le stesse. E fa davvero impressione vedere questi cortei multicolori che attraversano i viali di Goregaon con slogan così simili a quelli dei cortei «occidentali», ma del tutto diversi per forme espressive. Con danze e tamburi e rappresentazioni teatrali straordinariamente ingenue, come satire viventi che non c’è bisogno - queste sì - di tradurre, con pianti e lotte e vittorie e sconfitte. Europei e occidentali in genere sono sparute schiere. Anche nei mille panel di discussione i nomi sconosciuti abbondano, nomi delle cento culture asiatiche. Per creare questo incontro a Bombay ben 148 organizzazioni indiane, in molti casi tradizionalmente ostili tra di loro, si sono messe d’accordo. Le palizzate in legno, legate con corde, coperte di stracci colorati, di sacchi sono il risultato di questo lavoro. Come lo sono i petali di rosa che la delegazione pakistana ha lanciato alle guardie di frontiera indiane nell’attraversare un confine che è ancora rovente. Confine tra potenze nucleari, ormai, anche se l’Occidente ancora non se n’è accorto. Come ancora non ha ben compreso che, con il passare dei mesi, dei giorni si potrebbe dire, questo colosso asiatico - che assieme al resto del continente, assieme alla Cina, assomma ormai quasi la metà della popolazione mondiale - sarà presto decisivo per le sorti stesse della globalizzazione americana che qui viene aspramente contestata insieme con le sue guerre. Anche il tempo, in questa polvere che pare eterna, negli occhi di questi bambini che paiono vecchi e saggi, è altra cosa. E la storia, che per noi diventa corta e senza senso, per loro appare senza confini e piena di significato. Proprio ieri, mentre i 75 mila di Bombay si riunivano, arrivando da tutto il mondo e da un gran pezzo d’Asia (ma niente Cina, niente Russia), a 600 chilometri da qui, nella città di Allahabad, cominciava il Kumbh Mela. Un evento di cui nessuno di noi, che guardiamo la tv, e apparentemente ci curiamo dei guai giudiziari di Michael Jackson, sa assolutamente niente. Eppure questo mese in quella città semisconosciuta si riuniranno, per un immenso bagno rituale di purificazione, decine di milioni di persone. L’anno scorso furono 20 milioni in un solo giorno di gennaio. E allora sorge una domanda in chi scrive, e credo in chi legge: cosa possono significare i 75 mila di Bombay con le loro questioni irrisolte, con le loro aspirazioni senza potere, per i milioni che vanno a celebrare il Kumbh Mela ad Allahabad? O anche soltanto per la straripante maggioranza di questa città di 18 milioni di persone che vive dilaniata tra la ricchezza spettacolare dei centri del potere economico, isole d’aria condizionata e di vetrocemento scintillante, e quartieri-slum come Daharavi (la più grande cloaca a cielo aperto del pianeta, il più incredibile buco nero, in cui vivono oltre 4 milioni di persone)? In mezzo, tra questi estremi, testimonianza delle mille occasioni perdute dall’Occidente, si vedono ancora gli edifici coloniali lasciati dagli inglesi, decenti, signorili, un po’ ammuffiti dopo mezzo secolo dalla partenza di chi li aveva progettati. Colpa loro? In parte. Ma resta il fatto che mezzo secolo dopo la decolonizzazione l’India - che pure ha conservato, anzi costruito, una propria tradizione democratica unica in tutta l’Asia - non è ancora riuscita a trovare una soluzione di vita alle centinaia di milioni di persone, il 60 per cento di tutta la sua forza lavorativa, che ancora campano di agricoltura. Campano, perché non è vita, la loro, degna di questo nome. E’ per questo che le stazioni di Bombay scaricano ogni giorno decine di migliaia di disperati che si aggiungono a questo mare di miseria, per cercare sul cemento dei marciapiedi qualche lavoro, e qualche rupia, che la terra non riesce a dare loro. Forse il Social Forum di Bombay non troverà risposte a queste domande. L’unica cosa di cui può andare orgoglioso è che a Davos, dove, galleggiando su un comodo budget di 30 milioni di dollari, si riuniscono i potenti del mondo, quest’anno il tema è diventato molto simile a quello di Porto Alegre. A Bombay si dice, di nuovo, come un anno fa, che «un altro mondo è possibile». A Davos, con ritardo, si chiedono - sommessamente, dopo la Enron e Parmalat - se è migliorabile.

Giulietto Chiesa

Giulietto Chiesa (1940) è giornalista e politico. Corrispondente per “La Stampa” da Mosca per molti anni, ha sempre unito nei suoi reportage una forte tensione civile e un rigoroso scrupolo …