Gabriele Romagnoli: La grande festa di Beirut per celebrare gli hezbollah

30 Gennaio 2004
Beirut - Tutto comincia e finisce all´aeroporto di Beirut, nell´oscurità che precede l´alba e in quella che segue al tramonto. Inizia con tre cadaveri, termina con trentacinque uomini che hanno preso un volo di ritorno dall´inferno. La complessa meccanica a orologeria del più grande scambio di prigionieri tra Israele e Libano scandisce durante il giorno i suoi rintocchi a Tel Aviv, Colonia e nella striscia di Gaza.
Genera lacrime, sorrisi e fuochi d´artificio. Celebra un trionfo personale, quello di Nasrallah, leader di Hezbollah, e paradossalmente ne annuncia il rientro nell´ombra.
L´operazione viene avviata in Libano. È ancora notte. All´aeroporto illuminato dai fari arriva un convoglio. Le porte di un pullman si aprono e ne scende un uomo in giacca e cravatta, scortato. Il suo nome è Elhanan Tennenbaum, la sua nazionalità israeliana, le sue attività losche. È stato catturato dagli Hezbollah nel 2000. Proveniva dagli Emirati Arabi ed era in Libano per ragioni non chiare. "Cercavo notizie di Ron Arad", dice ai giornalisti. Ron Arad era, o è, un pilota israeliano catturato nel 1986. La sua famiglia è molto potente, pronta a tutto pur di riaverlo. O, almeno, di sapere che fine ha fatto. Scoprirlo è una delle ragioni che hanno spinto Israele a restituire 436 prigionieri in cambio di un trafficante e tre bare. Le casse appaiono sotto i riflettori. Sono di legno chiaro, hanno intagli a forma di foglia. Le issano su un aereo militare tedesco con lo strumento che solleva solitamente i bagagli. Dentro ci sono Adi Avitan, Benjamin Avraham e Omar Suwad, soldati, uccisi in combattimento. Che fossero morti, Hezbollah lo ha rivelato ufficialmente soltanto alla vigilia dello scambio. Ancora due giorni prima Nasrallah aveva nascosto la risposta dietro un sorriso di scherno della sua faccia paffuta. Le famiglie dei militari hanno barattato la speranza con la misericordiosa custodia dei corpi. Mentre le bare scompaiono nella pancia del velivolo qualcuno comunica alla trasmittente un messaggio che, via telefono, rimbalza in Israele.
Un aereo gemello è pronto sulla pista dell´aeroporto Ben Gurion a Tel Aviv. Vi salgono trentasei passeggeri: 35 arabi e un tedesco. Guida la fila, rispettato, lo sceicco Abdel Karim Obeid. Fu rapito dalla sua casa a Jibchit nel sud del Libano il 28 luglio dell´89. Trenta militari israeliani fecero irruzione nella notte scendendo da elicotteri. Un fasullo raid aereo distrasse il paese. La figlia di tre mesi che dormiva nel letto con i genitori scivolò sotto. Nel solo messaggio inviato alla famiglia durante la prigionia Obeid chiese di sapere se era ancora a viva. Ha quindici anni e sarà all´aeroporto di Beirut ad aspettare un padre sconosciuto. Lo stesso volo trasporta Mustafa Dirani, rapito il 21 maggio del ?94, mentre si riprendeva da un´operazione chirurgica al cervello. I suoi legali hanno fatto causa a Israele: sostengono che durante la detenzione è stato denudato, torturato, stuprato con una spranga. Non erano prigionieri di guerra, per loro è stata applicata una legge speciale, chiamata "Obeid-Dirani", approvata nel 2002. Obeid porta una maglia blu con la cerniera. Ha con sé un sacco di tela bianca. La sera prima del rilascio lui e gli altri hanno regalato ogni avere a chi restava. Sono stati portati da un carcere a un altro. Viaggiavano su autobus con le grate così strette che quando hanno provato a fare il segno di vittoria per i fotografi hanno potuto infilare le due dita, ma non sono riusciti ad allargarle. Andranno in Germania, come prima tappa. Il solo che fa capolinea è Stephan Smirek, il giovane tedesco che si convertì all´Islam e si arruolò tra i combattenti del "partito di Dio". Appena sbarcato rilascerà un´intervista televisiva in cui dirà: "Voglio tornare in Libano, combattere per la causa, morire martire". Verrà riproposta come un tormentone sulla rete Al Manar, la televisione di Hezbollah. Ha cominciato le trasmissioni al mattino con una marcia trionfale e un logo di catene spezzate da cui vola una colomba. Manda in onda decine di interviste a madri in attesa che dicono: "Grazie a Dio e grazie a Nasrallah".
Mentre gli aerei volano verso la Germania, colonie di veicoli viaggiano da Israele verso i confini della Palestina e del Libano. La prime trasporta 400 prigionieri "senza sangue sulle mani" che saranno liberati in prossimità della striscia di Gaza. Gli uomini a bordo stringono il Corano. Folle si accalcano per aspettarli. Vengono scaricati in prossimità di cinque diversi check point. Cubi di cemento segnano la frontiera. Oltre, ci sono i familiari. Appena varcata la linea divisoria tutti quanti smettono di camminare, rinviano gli abbracci per inginocchiarsi e baciare la terra, per la quale hanno sacrificato parte della vita. Quelli rilasciati a Betania vengono condotti a Ramallah, nel quartier generale di Arafat, che cerca di ritagliarsi uno spazio in una vittoria che non è sua. Dice la gente: "Nasrallah ha ottenuto quel che nessun leader palestinese è mai riuscito ad avere". Nasrallah è su tutti i poster appesi ai muri, appiccicati ai cofani delle auto, danzanti ai balconi di Beirut e dell´intero Libano nel giorno della sua festa più grande. Striscioni proclamano: "Noi non abbandoniamo i nostri prigionieri". Le bandiere di Hezbollah sono ovunque. Le sventolano bambini in mimetica e mitra, non necessariamente giocattolo. La seconda colonia di veicoli israeliani raggiunge intanto il confine libanese a Naqoura e scarica cinquantanove casse di legno. Contengono i resti di altrettanti guerriglieri di Hezbollah. A prenderle in consegna sono inviati della Croce Rossa. Per un giorno, il Libano rivuole soltanto i suoi vivi. Le salme scompaiono all´interno di un camion, sotto il sole.
Nevica a Colonia mentre, a distanza di pochi minuti, atterrano i due aerei provenienti da Beirut e Tel Aviv. Si dirigono verso lo stesso hangar. Parcheggiano affiancati. Medici e rabbini israeliani hanno l´incarico pietoso di verificare l´identità dei cadaveri e le condizioni di Tennembaum. Quando danno il consenso, le porte del secondo aereo si aprono e i prigionieri escono. Un altro volo li condurrà a casa.
Per Tel Aviv parte un mesto carico che sarà accolto con onori discreti, nel giorno di un ennesimo e multiplo lutto. L´attesa di Beirut è invece una eccitata vigilia. La strada per l´aeroporto è intasata di auto a clacson spiegati. Vessilli gialli ai finestrini. Fuochi d´artificio appena cala l´oscurità. Una sala viene riservata ai parenti degli ex prigionieri. Si radunano e siedono con l´ansia degli increduli. Fanno un curioso effetto. Sembrano le famiglie dei passeggeri vittime di un disastro, ma i loro cari stanno invece tornando dal buio. Fuori, ci sono donne che cantano e dignitari che arrivano sulle auto blu: il presidente Lahoud, il primo ministro Hariri, il patriarca Sfeir, la delegazione siriana, quella iraniana. E Nasrallah, benedicente dietro gli occhiali quadrati, ieratico in una contenuta, cerimoniale gioia. Sulla pista viene srotolato un tappeto rosso. Le luci dell´aereo in avvicinamento vengono accolte con un boato. I parenti si alzano a guardare il miracolo che scende dal cielo. Il comitato di ricevimento si dispone sulla pista. Il velivolo si ferma. La porta si apre. Escono per primi lo sceicco Obeid, fiero, e Mustafa Dirani, appoggiato a un bastone. Gli uomini alle loro spalle liberano, infine, le dita nel segno di vittoria. I rilasciati abbracciano un presidente e un premier che non hanno mai conosciuto e, con molto più calore, Nasrallah, per il quale avrebbero dato la vita e a cui ora la devono. Oggi ha vinto lui.
Sharon, contro il volere di molti, ha ceduto per soddisfare un desiderio che ha motivazioni religiose: riavere comunque il corpo delle persone amate. Ha fatto, anche, un calcolo politico di lungo periodo. Dopo questa, è prevista una seconda fase di scambi. Potrebbe preludere a un definitivo ritiro dalle terre libanesi. La restituzione dei prigionieri e dei territori occupati è la dichiarata missione di Nasrallah e di Hezbollah. "La nostra lotta continua", annuncia un loro striscione. Ma presto potrebbe non avere ragione di concedersi una tregua.

Gabriele Romagnoli

Gabriele Romagnoli (Bologna, 1960) Giornalista professionista, a lungo inviato per “La Stampa”, direttore di “GQ” e Raisport è ora editorialista a “la Repubblica”. Narratore e saggista, il suo ultimo libro è …