Giorgio Bocca: Lo stress del tribuno venuto dal Nord

12 Marzo 2004
Umberto Bossi lotta con il suo cuore all'ospedale di Varese. La sua vita non sembra più in pericolo, ma rischia di perdere ciò che ama di più: le lunghe notti di campagna elettorale. E' un animale politico che conosco da tempo. Quando nel '92 entrai nella sua anticamera, in via Arbe, c'erano quelli di Time ancora sbalorditi. Li aveva ricevuti in un abito nocciola a quadrettini e una cravatta a fiori. Molto soddisfatto. Sei anni prima friggeva le patate nelle feste di paese e andava ad attaccar manifesti della Lega di notte.
Ed ora ecco arrivare gli inviati dei più famosi giornali del mondo per capire se questo tipo occhialuto, nasuto, scarruffato è un nuovo dittatore o un innocuo federalista come dice di essere. E invece è un'altra cosa ancora, un casciabal con il fiuto per la politica. E' il mio turno, si toglie la giacca e la cravatta e mentre io tiro fuori carta e penna è già partito per le sue favolose memorie: "Ma come, non sai che sono un elettromedico? Io se vuoi ti fabbrico un laser. Ero nell'équipe del professor Zuffi all'ospedale di Varese, quello dei trapianti di cuore, studiavamo il cuore alle alte temperature. Non volevo entrare in politica, ma quando tu capisci una cosa, ne sei certo, come fai a piantarla. Noi avevamo capito che il centralismo politico era in crisi, che era basato su un automatismo fasullo: se hai i soldi comperi il consenso, se hai il consenso vinci le elezioni e ottiene il potere, se hai il potere trovi nuovo denaro. Un circolo magico, infallibile e invece è bastato mettere un bastone in quell'ingranaggio per farlo saltare".
E in questo diceva il vero. Anche allora la Lega politicamente era poca cosa, fuori del potere economico, fuori dalla cultura ma per il semplice fatto di esistere, di togliere voti ai partiti storici: democristiano, socialista, comunista, faceva cadere il principio della loro necessità, diceva che il re della partitocrazia era nudo, suggeriva al Cavaliere di Arcore, che di soldi ne aveva e molti, come arrivare al potere. Era presuntuoso e ambizioso il giovanotto nasuto e scarruffato, non voleva aiuti di concorrenti, non voleva dare contenuti seri al suo vago lombardismo, non si sognava di conoscere il Gioan Brera che lombardo era da uomo colto e diceva "se fossi giovane farei il separatista. Come? Con un giornale. Sono tanti sai che ci starebbero. Cosa credi, c'è un sacco di gente che mi dice "fa el giornal". Sono cose che ho scritto in un mio libro Milan e poppù.
Perché separatista? Perché la Lombardia è l'unica regione italiana di valore, la cultura moderna europea è stata fatta nel Seicento da quattro persone e tre erano lombarde: Monteverdi nella musica, Caravaggio nella pittura, il Borromini nell'architettura e il Galileo Galilei, toscano ma il suo nome la dice lunga sulle sue origini". Ma il Gioan Brera continuò a scrivere di calcio, di caccia, di pesca mentre il tribuno nasuto arruffato e il suo "ciarpame leghista" come lo chiamava Baget Bozzo scopriva che la rete dei fax e delle osterie di paese poteva sostituire il partito e la propaganda dei mass media.
Contarono anche le qualità istrioniche dell'uomo, la voce cavernosa, il brutto che piace alle donne, il parlar chiaro, blasfemo, irridente, il genio della battuta: "Andreotti? L'unico gobbo che porta sfortuna", "Roma ladrona", "Napoletani, basta lamenti, ditecelo voi che cosa possiamo fare per voi". Inventava poco la Lega, parlava a vanvera il suo leader nasuto, ma coglieva anche delle verità: "Parlate sempre di mutamento e poi vi stupite che gli unici che hanno cambiato veramente qualcosa trovino consensi?".
Erano una banda sgangherata quelli della Lega ma la partitocrazia era un edificio marcio che aspettava solo per cadere che qualcuno le desse una spinta. E venne giù, si frammentò la "balena bianca" democristiana, scomparve il socialismo craxiano dei congressi e dei garofani, incominciò l'avventura berlusconiana di Forza Italia, il partito azienda.
I leghisti non erano simpatici agli italiani dabbene. Quell'onorevole Leoni, per dire, che apre l'amministrazione leghista di Varese in dialetto: "El caciass ca gh'em incoeu l'è de trouà un accord de programma ch'al sciarisa a la nostra gent quai in i rob ca gh'em inteziun de fa". Sono rozzi come il loro capo i leghisti e lui lo è in modo brutale: "Dalla Chiesa? Un fesso con un bel nome", "De Mita? Brutto di giorno e di notte", "Andreotti, voleva tuffarsi nella fontana del Quirinale ma gli abbiamo tolto l'acqua" .
E le lodi del folclorismo più vieto, dello scarpinasc il raviolone delle osterie comasche, i militanti in costume con l'elmo in testa e la croce sul petto, le storie celtiche inventate, il lancio della pietra, l'ampolla di acqua della sorgente del Po, il parlamento padano in una villetta presso Mantova, la scuola padana, il futuro ministro Castelli che si sposa secondo un rito longobardo della regina Teodolinda. Gli intellettuali sparano alzo a zero sul tribalismo della Lega, sull'abominevole culturame degli indigeni padani, e in loro soccorso, impietosito, accorre Arbasino che ironizza su quel disprezzo "per le loro deplorevoli fabbrichette dedite solo alla produttività bruta. E ci sarà un abisso di stile nel passaggio da Pillitteri a Bossi?".
Circondata, isolata dalla buona borghesia milanese la Lega viene sconfitta alle elezioni amministrative, esce da piazza della Scala e torna nella periferia di via dell'Arbe e politicamente smette di correre da sola e finisce per salire sul carro di Berlusconi che ha simpatia per Bossi ma gioca con lui con la carota e il bastone, fingendo di temere i suoi ricatti e piantandolo quando si impunta.
Così tira avanti minacciando sconquassi e tornando mogio all'ovile governativo. Finisce che il guerriero del nord Umberto da Giussano va al Festival di Sanremo a cantar una canzone napoletana in gara con Mino Reitano.

Giorgio Bocca

Giorgio Bocca (Cuneo, 1920 - Milano, 2011) è stato tra i giornalisti italiani più noti e importanti. Ha ricevuto il premio Ilaria Alpi alla carriera nel 2008. Feltrinelli ha pubblicato …