Giorgio Bocca: Quel rebus irrisolto tra falsi e doppie verità
19 Marzo 2004
Trentacinque anni dopo si chiude con un nulla di fatto l'indagine sulla strage di piazza Fontana, sulla bomba alla Banca dell' Agricoltura che uccise diciassette persone e ne ferì ottantaquattro. I giudici della seconda Corte di Assise di Milano hanno assolto, per non aver commesso il fatto, Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi e Giancarlo Rognoni che il 30 giugno 2001 in primo grado erano stati condannati all' ergastolo, sulla base «di un quadro solidissimo di prove». Di quella sera del 12 dicembre 1969 ricordo il buio fondo su Milano, rotto dai fari delle autoambulanze e delle autopompe, il fumo acre dell' esplosione, lo scempio dei morti e dei feriti. Si era nel pieno della strategia della tensione, a forza di giocare con il fuoco il fuoco era divampato, a forza di giocare alla guerra la guerra era arrivata. Andai al "Giorno" per scrivere la cronaca di quella giornata convulsa delle tre bombe nelle banche di Milano e all' Altare della Patria a Roma. Il direttore Pietra la lesse e poi domandò: «Secondo te chi le ha messe?». «I carabinieri» risposi di botto. Volevo dire un apparato di Stato, servizi segreti, agenti provocatori. «Tu dici? - fece Pietra - il prefetto di Milano Mazza è convinto che siano stati gli anarchici». Si era già quella sera, a poche ore dalla strage, disegnato il rebus politico-poliziesco che oggi la seconda Corte di Assise di Milano ci rimanda, irrisolto dopo il lunghissimo iter giudiziario: subito l' arresto e l' inchiesta su Pietro Valpreda e sulla pista anarchica, poi sui neofascisti Freda e Ventura arrestati, processati, condannati e assolti fino all' emergere, dopo anni, della nuova pista di Delfo Zorzi, l' industriale fuggito in Giappone sotto il nome di Hagen, accusato assieme ai terroristi neri Giancarlo Rognoni e Carlo Maria Maggi, accusato dal pentito Carlo Digilio, invano richiesto alla giustizia giapponese, processato in contumacia, condannato e ora assolto, fra lo sdegno dei parenti delle vittime e il compiacimento professionale dei grandi avvocati difensori Pecorella e Taormina che avevano definito la condanna «scritta con la penna rossa» . Il sospetto che la strage di piazza Fontana fosse una strage di Stato posava allora su alcuni argomenti fermi, indiscutibili. Il primo era la inattendibilità della pista anarchica e l' interesse scoperto ad avvalorarla da parte di autorità statali, prefetti, procuratori, questori. Era incredibile che la debole, confusionaria anarchia di casa nostra avesse organizzato una serie di attentati contemporanei in due città diverse, su obiettivi diversi, banche e Altare della Patria. E la corsa a mettere le indagini su una pista falsa era stata precipitosa, persino goffa, ora accusando apertamente gli anarchici alla Valpreda o alla Pinelli, ora insinuando i sospetti su Giangiacomo Feltrinelli, il miliardario rosso. Il vicequestore Allegra aveva fatto di più, aveva fatto brillare la bomba inesplosa alla Banca Commerciale, aveva distrutto le prove. Avevano dunque ragione i giornalisti che allora si definirono democratici per dire semplicemente che non accettavano gli inganni e le minacce del potere, la sanguinosa provocazione dell' apparato poliziesco facente capo all' alleanza atlantica. Non solo era tempo di guerra ma anche del furore e dell' isterismo. La bomba di piazza Fontana ebbe infatti effetti dirompenti, aprì la strada agli anni di piombo, alla lotta armata, fu un grossolano errore delle forze repressive, scatenò reazioni fino ad allora impensabili, andò al di là delle intenzioni dei suoi autori. Fu una casualità a decidere la strage, la bomba era stata messa per esplodere a banca vuota, ma quel lunedì, dato l' avvicinarsi del Natale, le contrattazioni ripresero anche al pomeriggio. Tutto il parlar di colpo di Stato e di repressione che si era fatto nei mesi precedenti mentre saliva il conflitto sociale sembrò all' improvviso una verità rivelata, la prova che lo Stato borghese si era deciso per la maniera forte, per lo Stato di polizia. E c' era anche l' isteria dilagante da entrambe le parti, la voglia di buttarsi nello scontro, nella ferma convinzione di stare dalla parte giusta. La politica diventava un giallo irrisolvibile, sfuggente. Un governo moderato di pii democristiani si piegava a coprire le trame dei servizi segreti, permetteva che lo scontro sociale fosse condizionato dalle bombe, ma il rivoluzionarismo giovanile stava al gioco, ricambiava la violenza, annodava e in parte rafforzava l' intreccio, diffondeva la paura, l' attesa di un prossimo colpo di Stato parafascista che era fuori da ogni logica, da ogni interesse della maggioranza silenziosa che stava dietro lo scudo crociato. E anche il cosiddetto giornalismo democratico si costruiva gli inganni con le sue mani, navigava nelle acque sporche della disinformazione poliziesca, gli dava una dignità che non meritava, una intelligenza che non aveva. Il sottobosco dei misteri richiamava irresistibilmente i mitomani, i maniaci, pronti a diventare collaboratori inconsci, il capo dei servizi «speciali» del ministro degli Interni forniva materiale falso ai cronisti di assalto cercatori di esclusive, ebbe grande successo un saggio «La strage di Stato» inzeppato di «notizie del diavolo» , le false notizie per creare piste false, congiure inesistenti. Anche la destra si faceva prendere da quella febbre. Il suo giornalista più importante, Montanelli, perdeva il ben dell' intelletto, accusava la Camilla Cederna e la Giulia Maria Crespi, padrona del «Corriere», di trame con Mario Capanna, il capo della contestazione studentesca e i carabinieri perquisivano la villa e il giornale della signora che della borghesia liberale era una riconosciuta rappresentante. Scambiare una Crespi per una sovversiva era davvero troppo, ma la confusione e l' eccitazione erano grandi e la faziosità era giunta anche sul colle del Quirinale. Con piazza Fontana si erano rotte solidarietà antiche, risorgimentali, il patto sociale per cui le autorità dello Stato venivano considerate al di sopra di ogni sospetto di parte, garanti di una legalità fuori discussione. Impensabile che un prefetto, un questore facessero parte di una congiura terroristica. Ci si chiede perché dopo trentacinque anni il rebus di piazza Fontana non sia stato risolto. Ma i delitti o le trame di Stato non lo sono mai, basti pensare al mistero di Ustica e simili: ci sono sempre complicità fra i potenti che vanno coperte anche dopo decenni. Ci sono sempre assoluzioni basate sulla insufficienza di prove che sono state distrutte dagli stessi che dovrebbero cercarle. E' passato più di un secolo ma si discute ancora degli scandali del periodo umbertino, si continua a indagare inutilmente sui corrotti del fascismo e della Repubblica. Il signor Zorzi alias Hagen può restare tranquillo nel remoto Giappone.
Giorgio Bocca
Giorgio Bocca (Cuneo, 1920 - Milano, 2011) è stato tra i giornalisti italiani più noti e importanti. Ha ricevuto il premio Ilaria Alpi alla carriera nel 2008. Feltrinelli ha pubblicato …