Lorenzo Cremonesi: "Lo sceicco ci aveva detto: non li toccheremo"
16 Aprile 2004
"Non ci posso credere! Davvero? No, no, no", è con un lamento incredulo che i 7 colleghi rimasti a Bagdad dei 4 italiani rapiti ricevono la notizia. Al Jazira ha appena annunciato che uno degli ostaggi è stato ucciso. "Ma come! Se solo poche ore fa ci avevano assicurato", sussurra Valeria Castellani, la coordinatrice del gruppo. E l' incognita terribile: chi hanno ucciso? Ma il dubbio dura poche ore e lascia il posto a una nuova domanda carica di angoscia: quando sarà il prossimo? Poi nella notte corrono a consultarsi con il rappresentante italiano in Iraq, Gianludovico De Martino. La loro delusione è ingigantita dal fatto che le speranze erano cresciute nel pomeriggio dopo il primo contatto con i circoli iracheni locali che avevano promesso di aiutarli. "Volete i vostri compagni liberi subito? Allora tornate assieme all' ambasciatore italiano. Che venga a trovarci di persona, che capisca le ragioni della nostra lotta!", gli avevano detto nella trattativa parallela appena iniziata. Valeria e il collega Paolo (il cognome non lo vuole dire "per ragioni di sicurezza") avevano scelto di recarsi nell' abitazione a Bagdad di Mohammed Al Habib, capo della tribù dei Rabia e leader influente di altre 144 tribù che risiedono dalla zona di Bassora, nel Sud, a quella di Ramadi e Falluja, dove si ritiene siano tenuti i quattro. Gli inizi non sono stati facili. Lunghi silenzi mentre viene servito il tè, i sorrisi di circostanza un poco imbarazzati, le strette di mano ai numerosi notabili che via via si avvicendano nella stanza. Ma dopo un paio d' ore i sorrisi prendono il posto della tensione. "I vostri compagni stanno bene. Sono in buone mani. Sino a che restano sotto la nostra protezione non verrà loro torto un capello. Siamo gente d' onore noi. Ma dovete capirci. Cosa fareste voi se l' Italia fosse invasa da una potenza straniera?", dice lo sceicco Taleb Al-Mohendi, che risiede proprio a Falluja, il cuore militante del "triangolo sunnita". Affermazioni che con il senno di poi sembrano una beffa. In quel momento gli italiani tirano il fiato. Ma rimane una preoccupazione di fondo. "Adesso chi convincerà De Martino a venire qui con noi? Sono due giorni che gli chiediamo di aiutarci. Però si limita a porre mille domande sulla nostra attività e non muove un dito", si lamenta Valeria. "Avete tempo. Queste cose vanno per le lunghe. Ci vorranno almeno una decina di giorni prima di poter definire gli accordi", aggiunge Al Habib. Ma 10 giorni sono tanti. "Cosa succederà se per caso a Nassiriya tra le truppe italiane e la popolazione scoppiano nuovi incidenti? La vita dei nostri amici è appesa a un filo", pensa a voce alta Paolo. E in serata, dopo la notizia dell' uccisione del primo ostaggio, De Martino ha acconsentito a incontrare gli sceicchi. Ancora non è chiaro chi abbia catturato i quattro italiani. Assieme agli agenti della "Presidium" cerchiamo di ricostruire i fatti. "Salvatore Stefio, il nostro presidente era partito con gli altri 3 colleghi lunedì mattina alle sette. Avrebbero dovuto prendere un aereo. Ma le liste d' attesa sono piene. E lui non voleva attendere. Intendeva arrivare in Italia presto perché il 18 aprile aveva un appuntamento in Confindustria per trattare servizi di scorta per le compagnie italiane che intendono avviare le loro attività in Iraq", ricorda Valeria. Così la fretta avvia la catena di errori imperdonabili che portano al rapimento. "Avevamo concordato con la compagnia di taxi qui all' hotel Babil che prendessero due Caprice, auto da 170 all' ora e poco visibili". Invece si è presentato un solo autista su un gippone Gms, lento, visibile, usato dagli stranieri e dunque obbiettivo privilegiato di ladri e guerriglieri. Partono comunque, ma alla periferia vengono fermati a un posto di blocco americano, che sequestra 3 mitra pesanti di cui non avevano la licenza. Tornano indietro. E prendono due pistole calibro 9 (una CZ e una colt 45) oltre a una mitraglietta MP5. Sono quasi le 10. Troppo tardi. Ma loro si rimettono in viaggio". Un viaggio lungo quasi 18 ore sino ad Amman. Evitano l' autostrada per Falluja, salgono invece verso Nord, passano Samara, Tikrit, quindi imboccano una secondaria che in pieno deserto si raccorda sull' autostrada per la Giordania a Nord di Ramadi. E' qui che secondo i compagni i 4 vengono fermati. "Probabilmente da un posto di blocco di uomini della guerriglia travestiti da poliziotti". Sta di fatto che al confine non arrivano mai. Lunedì notte non hanno consegnato le armi e la vettura agli altri due agenti della Presidium che li attendevano in una piccola base militare americana per venire a loro volta a Bagdad. "Non hanno mai telefonato", conferma Valeria. Ora tutto diventa più tragico, terribile. Si sentono abbandonati. "Ci hanno lasciato soli. E dire che De Martino ci conosce bene. Operiamo in Iraq dall' agosto scorso. Abbiamo lavorato come guardie del corpo per la Bearing Point anglo-americana, per la ditta di telefonia Mca e la compagnia Rti che offre servizi di sicurezza, entrambe americane. In gennaio l' ambasciatore Mario Osio, che sino al 31 marzo ha svolto la funzione di ministro per gli Affari culturali dell' amministrazione Usa in Iraq, aveva chiesto la nostra protezione. Noi avevamo fatto il nostro preventivo, che era molto meno dei circa 20.000 dollari a testa che riceviamo in genere dagli americani. Ma De Martino non ha mai dato una risposta. E abbiamo lasciato perdere". E non mancano parole di durezza per il governo. "Non potevano evitare di dire che con i terroristi non si tratta?", esclama Paolo. "A Roma c' è chi vuole fare l' eroe a spese delle nostre vite".
Lorenzo Cremonesi
Lorenzo Cremonesi (Milano, 1957), giornalista, segue dagli anni settanta le vicende mediorientali. Dal 1984 collaboratore e corrispondente da Gerusalemme del “Corriere della Sera”, a partire dal 1991 ha avuto modo …