Marina Forti: Guerra al terrorismo. "Abu Ghraib caso isolato? No, non lo è"

04 Maggio 2004
Aryeh Neier ha una lunga esperienza di battaglie per i diritti civili: fin dai primi anni `60, quando si è trovato a lavorare con la American Civil Liberties Union, di cui è stato poi il presidente per otto anni - in un'epoca in cui il liguaggio delle libertà civili o dei diritti umani non era per nulla scontato. Avvocato, è stato tra i fondatori di Human Rights Watch, ha insegnato legge alla New York University, e dal 1993 presiede la Fondazione Soros e il Open Society Institute. Quando gli chiedo un'opinione sulle violenze e le umiliazioni inflitte ai prigionieri iracheni nel carcere di Abu Graib a Baghdad, Neier non ha dubbi: "Non credo che sia un caso isolato. Credo che stia venendo alla luce qualcosa di terribile e molto grave: quando un soldato si comporta così non è un fatto individuale. Quei soldati avevano il compito di "preparare i prigionieri all'interrogatorio": come minimo, hanno agito come pensavano che i loro superiori si aspettassero da loro". Incontro Aryeh Neier all'Università di Siena, dove ha tenuto delle lezioni nell'ambito del master sui diritti umani presso il corso di Scienze della comunicazione. Giorni prima aveva discusso in pubblico sul tema: "Le leggi internazionali sui diritti umani si applicano alla guerra al terrorismo?". Il punto, mi dice Neier, "è che l'amministrazione Bush non applica ai terroristi né il normale codice penale o le leggi costituzionali americane, né la legislazione internazionale sui diritti umani, e neppure le leggi internazionali di guerra o quelle umanitarie. Il presidente degli Stati uniti si è attribuito un potere inerente di condurre questa guerra, con cui può, a sua unica discrezione, detenere delle persone senza accuse formali, senza tradurle davanti a un magistrato, lasciargli vedere un avvocato o un familiare. Questo va contro tutte le leggi, anche di guerra.

Questo è successo con la Patriot Act.
Già. Molti paesi democratici hanno ridotto in qualche misura i diritti dei cittadini quando hanno affrontato il terrorismo, penso alla Gran Bretagna con l'Ira, la Spagna con l'Eta, l'India con il problema del Kashmir. Ma nessuna democrazia ha limitato i diritti in modo così drastico come gli Stati uniti. Nessun paese può tenerti dentro a tempo indefinito senza accuse. L'amministrazione Bush invece ha detto che se il presidente dichiara un cittadino americano "combattente nemico", o "combattente illegale", questo è privato di tutti i diritti. Ed è successo: in questi giorni la Corte suprema si occupa del caso di José Padilla, americano arrestato a Chicago e dichiarato "combattente nemico".

Dopo l'11 settembre 2001 ci siamo sentiti dire che per avere sicurezza dobbiamo rinunciare a parte dei diritti legali.
Tutti siamo disposti ad accettare certe limitazioni in cambio di sicurezza, se parliamo, per esempio, di controlli in un aereoporto: mi da fastidio, ma non è una violazione dei miei diritti. Ma qui parliamo di tenere uno in prigione senza accuse e senza fargli vedere un giudice o un avvocato: non vedo perché questo dovrebbe farmi sentire più sicuro. E questa sì è una grave violazione dei diritti. Di fronte a ogni misura di sicurezza bisogna chiedersi se ci rende davvero più sicuri e qual è il suo costo in termini di diritti. Tutta la storia delle libertà civili, dalla Magna Charta, è stata garantire che tutti abbiano la possibilità di impugnare un arresto o un atto legale contro di sé. Con la Patriot Act si spazzano via 800 anni di protezione delle libertà civili.

Poi c'è il caso di Guantanamo: per Washington quei detenuti non sono "prigionieri di guerra". Ma non hanno le protezioni costituzionali americane perché, dicono, non è territorio degli Stati uniti.
Questo è giocare con le parole. Gli Stati uniti hanno un "affitto perpetuo" su Guantanamo: dunque quello è territorio sotto la giurisdizione americana. Una delle cose peggiori, circa Guantanamo, è che secondo le norme internazionali di guerra quando sussiste il dubbio sullo status di un detenuto bisogna trattarlo come prigionieri di guerra finché un tribunale indipendente e imparziale avrà determinato che non lo è. Gran parte dei detenuti di Guantanamo sono stati catturati in Afghanistan. Potevano essere combattenti Taleban o al Qaeda, oppure no. Gli Stati uniti non sanno molto di loro e delle circostanza in cui sono stati presi, perché in Afghanistan combattevano più che altro dal cielo e avevano pagato l'Alleanza del Nord per combattere i Taleban sul terreno. Così gran parte dei prigionieri furono catturati dall'Alleanza del Nord che poi li ha venduti agli americani...

Ha detto "venduti"?
Sì, ceduti per denaro. L'Alleanza del Nord era un gruppo di "signori della guerra" con truppe mercenarie, e si finanziavano soprattutto con il traffico di oppio. Hanno venduto droga, persone... A Guantanamo sono stati portati perfino ragazzini di 13 anni. Gli Stati uniti hanno rilasciato finora 120 persone, una sorta di ammissione che erano stati presi per sbaglio. Ma ancora, a gran parte di quei detenuti è negata l'udienza di un magistrato. Li definiscono "combattenti illegali" perché non appartengono a un esercito regolare: ma per le Convenzioni di Ginevra anche i combattenti illegali hanno dei diritti. Guantanamo è un mostro giuridico. L'unico motivo di ottimismo è che anche Guantanamo è arrivata alla Corte suprema, tramite i ricorsi degli avvocati d'ufficio militari.

Dunque la "guerra al terrorismo" sta scavando la fossa alla legalità internazionale?
Se parliamo di legalità, ci sono tre motivi accettati per cui un paese può dichiarare una guerra. Uno è l'autodifesa, un altro è una decisione del Consiglio di sicurezza dell'Onu in accordo con l'articolo 7 della Carta delle Nazioni unite. Il terzo è sulla base della Convenzione contro il genocidio, per prevenire appunto un genocidio. George W. Bush ha invocato l'autodifesa: ha detto che c'erano delle armi di distruzione di massa in mano a un dittatore che poteva passarle a terroristi, e che l'America doveva difendere sé e il mondo "senza aspettare un attacco". Poi però la tesi delle armi di distruzione di massa è stata screditata, e la prova di un legame tra il regime iracheno e al Qaeda non c'è mai stata. Così l'amministrazione Bush ha un problema di legittimità: mollata l'autodifesa ora dice che la guerra ha eliminato un dittatore, e che questo fa parte del progetto di "promuovere la pace e la democrazia in Medio oriente". E però, può promuovere la democrazia un paese con alto prestigio e legittimità internazionale, mentre la legittimità americana non è mai stata così bassa: per l'appoggio dato a Israele, per Guantanamo dove gran parte dei prigionieri sono musulmani, per i modi dell'occupazione in Iraq. Le foto dei detenuti iracheni umiliati a Abu Graib non fanno che screditare ancor più il progetto americano di presentarsi come i fautori della democrazia.

Crede che quelle foto spingeranno gli americani a chiedersi "perché siamo in Iraq", come successe a suo tempo con la guerra in Vietnam?
Non credo che sarà una sola ragione ma un accumulo: gli americani cominciano a vedere il numero dei caduti in una guerra che era stata dichiarata vinta, il comportamento dei militari laggiù, i costi, il fatto che "esportare la democrazia" non funziona, e tutto questo gradualmente metterà in discussione la guerra.

Marina Forti

Marina Forti è inviata del quotidiano "il manifesto". Ha viaggiato a lungo in Asia meridionale e nel Sud-est asiatico. Dal 1994 cura la rubrica "TerraTerra" che riporta storie quotidiane in …