Marina Forti: Un'India dal "volto umano"
21 Maggio 2004
Ha voluto mettere alcuni punti fermi, il primo ministro incaricato indiano Manmohan Singh. In un incontro con la stampa ieri a New Delhi ha delineato le priorità del suo governo: dal processo di pace con il Pakistan a dare alle riforme economiche in India "un volto umano". Singh, rispettato dirigente del partito del Congresso, sarà il primo non-hindu premier nell'India indipendente. Ha ricevuto l'incarico mercoledì dal presidente della repubblica Abdul Kalam, dopo che la leader del Congress Sonia Gandhi ha deciso di farsi da parte - con gesto che ha sconcertato il suo partito ma ha anche "alzato enormemente la sua statura politica e morale", secondo ‟The Hindu”, autorevole quotidiano in lingua inglese. Manmohan Singh presenterà in un giorno o due la sua lista di ministri - il giuramento è atteso per sabato. Lui stesso è stato coinvolto nella settimana scorsa nei colloqui con i futuri alleati di governo, la coalizione battezzata Alleanza democratica progressista che comprende diversi partiti di centro-sinistra e con base regionale, e ha l'appoggio esterno dei due partiti comunisti indiani.
Quelli illustrati ieri da Singh sono dunque i principi generali del suo governo. La priorità massima, ha detto, sono relazioni amichevoli con i vicini "e soprattutto con il Pakistan". Dunque intende portare avanti il processo di pace avviato all'inizio di quest'anno dal suo predecessore Atal Behari Vajpayee. "Dobbiamo trovare i mezzi per risolvere tutti i problemi che sono stati fonte di frizioni", ha detto Singh (un sikh nato 71 anni fa in una zona del Punjab poi divenuta Pakistan con la Spartizione del 1947, quando dall'India coloniale nacquero due nazioni sovrane e divise). Singh ha invitato a "guardare il futuro con speranza". Parole accolte con favore nella capitale pakistana Islamabad, dove ieri il presidente Parvez Musharraf (nato a New Delhi) ha dichiarato che il Pakistan cerca la pace con l'India attraverso la risoluzione di tutte le dispute, "inclusa la questione centrale del Kashmir". Lo stato himalayano conteso è un altro punto toccato ieri da Manmohan Singh: il suo governo proseguirà il dialogo avviato in gennaio con le forze separatiste moderate e discuterà "con tutte le forze interessate". Le relazioni indo-pakistane avranno un primo test in giugno, quando si incontreranno i ministri degli esteri.
Sul piano interno, il primo ministro incaricato Singh vuole "rafforzare la pace tra le comunità religiose" e ristabilire quello che ha chiamato "il tessuto laico" del paese. Cercherà dunque una soluzione alla lunga disputa di Ayodhya, la cittadina nella piana del Gange dove estremisti hindu avevano distrutto una moschea nel 1992 innescando una serie di violenze intercomunitarie (e innescando l'ondata politica che aveva portato al potere il partito espressione della "supremazia hindu", cioè lo sconfitto Partito nazionalista indiano). Ha insistito: "Se siamo divisi nel nome della religione, la nazione è in pericolo. Per rafforzare lo sviluppo dobbiamo creare un ambiente di pace".
Lo sviluppo è in effetti l'altra grande priorità del governo - ed è il terreno su cui le credenziali di Manmohan Singh sono più forti. In effetti questo signore dai modi garbati, un economista che ha studiato a Cambridge e Oxford, è stato il primo architetto della liberalizzazione indiana. Era diventato ministro delle finanze nel 1991 in un momento critico per l'India, non solo perché il probabile premier Rajiv Gandhi era stato ucciso ma perché l'economia stagnava, il deficit fiscale era insostenibile (8,5% del prodotto interno lordo) e le riserve di valuta erano crollate a un miliardo di dollari, pari a due settimane di importazioni indiane. Singh ha accelerato la via già intrapresa da Rajiv Gandhi: in poco più di un anno ha smantellato il sistema di licenze necessarie per produrre, esportare, importare (lo chiamavano il licence raj, l'impero delle licenze); semplificato il sistema fiscale, tagliato le imposte sull'import, liberalizzato gli investimenti stranieri in molti settori, reso convertibile la rupia.
E' un fatto, la pianificazione statale che aveva permesso all'India uno sviluppo autosufficente nei primi decenni di indipendenza era diventata una burocrazia corrotta che certo nessuno, neanche a sinistra, rimpiange. E però Manmohan Singh oggi parla di dare "un volto umano" alle riforme economiche", perché siano di "beneficio alle persone comuni, a tutti gli indiani". Forte sostenitore di un modello "misto" pubblico e privato, dice che lo stato ha un ruolo insostituibile nelle infrastrutture e nell'agricoltura e "dove ci sembra che il mercato da solo non può produrre i beni che la nostra gente ha bisogno: l'istruzione, la sanità, la protezione ambientale, l'assistenza sociale di base". In questi giorni ha ripetuto che le rifome non si fermano, ma non intende vendere le imprese "sane", non privatizzerà le banche di stato, né il settore petrolifero e del gas naturale. Il suo governo sosterrà le imprese, pubbliche e private, e insieme gli interessi dei lavoratori ("un grande numero di lavoratori è stato aggiunto al bacino dei disoccupati e questo non è buono"). Promette di investire nello sviluppo dell'agricoltura, che ha oggi un quarto del Pil ma da cui dipende il 70 percento della popolazione indiana: e negli ultimi 5 anni l'agricoltura è cresciuta del 2% annuo in media, contro il 7 o 8% dell'economia - guidata dai servizi e dal boom del software. Insomma, è un vero programma socialdemocratico quello che promette Manmohan Singh.
Quelli illustrati ieri da Singh sono dunque i principi generali del suo governo. La priorità massima, ha detto, sono relazioni amichevoli con i vicini "e soprattutto con il Pakistan". Dunque intende portare avanti il processo di pace avviato all'inizio di quest'anno dal suo predecessore Atal Behari Vajpayee. "Dobbiamo trovare i mezzi per risolvere tutti i problemi che sono stati fonte di frizioni", ha detto Singh (un sikh nato 71 anni fa in una zona del Punjab poi divenuta Pakistan con la Spartizione del 1947, quando dall'India coloniale nacquero due nazioni sovrane e divise). Singh ha invitato a "guardare il futuro con speranza". Parole accolte con favore nella capitale pakistana Islamabad, dove ieri il presidente Parvez Musharraf (nato a New Delhi) ha dichiarato che il Pakistan cerca la pace con l'India attraverso la risoluzione di tutte le dispute, "inclusa la questione centrale del Kashmir". Lo stato himalayano conteso è un altro punto toccato ieri da Manmohan Singh: il suo governo proseguirà il dialogo avviato in gennaio con le forze separatiste moderate e discuterà "con tutte le forze interessate". Le relazioni indo-pakistane avranno un primo test in giugno, quando si incontreranno i ministri degli esteri.
Sul piano interno, il primo ministro incaricato Singh vuole "rafforzare la pace tra le comunità religiose" e ristabilire quello che ha chiamato "il tessuto laico" del paese. Cercherà dunque una soluzione alla lunga disputa di Ayodhya, la cittadina nella piana del Gange dove estremisti hindu avevano distrutto una moschea nel 1992 innescando una serie di violenze intercomunitarie (e innescando l'ondata politica che aveva portato al potere il partito espressione della "supremazia hindu", cioè lo sconfitto Partito nazionalista indiano). Ha insistito: "Se siamo divisi nel nome della religione, la nazione è in pericolo. Per rafforzare lo sviluppo dobbiamo creare un ambiente di pace".
Lo sviluppo è in effetti l'altra grande priorità del governo - ed è il terreno su cui le credenziali di Manmohan Singh sono più forti. In effetti questo signore dai modi garbati, un economista che ha studiato a Cambridge e Oxford, è stato il primo architetto della liberalizzazione indiana. Era diventato ministro delle finanze nel 1991 in un momento critico per l'India, non solo perché il probabile premier Rajiv Gandhi era stato ucciso ma perché l'economia stagnava, il deficit fiscale era insostenibile (8,5% del prodotto interno lordo) e le riserve di valuta erano crollate a un miliardo di dollari, pari a due settimane di importazioni indiane. Singh ha accelerato la via già intrapresa da Rajiv Gandhi: in poco più di un anno ha smantellato il sistema di licenze necessarie per produrre, esportare, importare (lo chiamavano il licence raj, l'impero delle licenze); semplificato il sistema fiscale, tagliato le imposte sull'import, liberalizzato gli investimenti stranieri in molti settori, reso convertibile la rupia.
E' un fatto, la pianificazione statale che aveva permesso all'India uno sviluppo autosufficente nei primi decenni di indipendenza era diventata una burocrazia corrotta che certo nessuno, neanche a sinistra, rimpiange. E però Manmohan Singh oggi parla di dare "un volto umano" alle riforme economiche", perché siano di "beneficio alle persone comuni, a tutti gli indiani". Forte sostenitore di un modello "misto" pubblico e privato, dice che lo stato ha un ruolo insostituibile nelle infrastrutture e nell'agricoltura e "dove ci sembra che il mercato da solo non può produrre i beni che la nostra gente ha bisogno: l'istruzione, la sanità, la protezione ambientale, l'assistenza sociale di base". In questi giorni ha ripetuto che le rifome non si fermano, ma non intende vendere le imprese "sane", non privatizzerà le banche di stato, né il settore petrolifero e del gas naturale. Il suo governo sosterrà le imprese, pubbliche e private, e insieme gli interessi dei lavoratori ("un grande numero di lavoratori è stato aggiunto al bacino dei disoccupati e questo non è buono"). Promette di investire nello sviluppo dell'agricoltura, che ha oggi un quarto del Pil ma da cui dipende il 70 percento della popolazione indiana: e negli ultimi 5 anni l'agricoltura è cresciuta del 2% annuo in media, contro il 7 o 8% dell'economia - guidata dai servizi e dal boom del software. Insomma, è un vero programma socialdemocratico quello che promette Manmohan Singh.
Marina Forti
Marina Forti è inviata del quotidiano "il manifesto". Ha viaggiato a lungo in Asia meridionale e nel Sud-est asiatico. Dal 1994 cura la rubrica "TerraTerra" che riporta storie quotidiane in …