Francesco Piccolo: Risate vigliacche

27 Maggio 2004
Come si può fare per tenere separati Woody Allen e "Striscia la notizia"? Come si può fare per distinguere all’interno di quel che viene definito comico, una gerarchia di valori? Come si fa a comprendere e far comprendere perché Campanile e Flaiano sono per davvero un’altra cosa rispetto alla "Gialappa" e dei comici di Bulldozer?
Non è questione semplice. Dagli anni Ottanta, per intenderci, abbiamo affidato alla comicità (e, ancora prima, alla satira) la nostra maniera di sentirci intelligenti. La cosa ci si è rivoltata contro. Abbiamo un’offerta di comicità che è diventata superiore alla domanda, e confonde. Siamo arrivati a un punto in cui molti hanno affidato (e continuano ad affidare) ad Antonio Ricci e a "Striscia la notizia" quel concetto difficile e pericoloso che è la verità: "l’hanno detto a Striscia la notizia".
Proviamo ad analizzare questa differenza. Vi chiedendo di tornare con me ai tempi della scuola, dove esisteva quel particolare tipo che aveva un potere sugli altri: il simpatico. Può darsi che siete stati voi, quel tipo. Male. Perché il simpatico a scuola faceva soffire qualcuno. Può darsi che siete stati quelli contro cui il simpatico si accaniva. Male. Perché vi faceva soffrire. La sostanza della sua simpatia era l’accanimento: se la prendeva con qualcuno. Con i deboli, gli storpi, i timidi, gli effeminati, persino con quelli che avevano uno strano cognome. Lui, da solo, senza un punto di riferimento debole, non era simpatico. Lo diventava solo grazie all’accanimento. Lo ricordate? Più si accaniva, più diventava simpatico. Più diventava simpatico, più diventava potente. Era forte. Era un capo. Ci si alleava con lui in tutti i modi, perché alleandosi con lui si evitava di essere le sue vittime e si stava in una posizione perfetta: non ci si accaniva in prima persona e intanto si poteva ridere alle spalle degli altri. Così, anche gli alleati, oltre al capo, diventavano più forti.
Ecco, la comicità televisiva, quella che ci seduce e ci sembra intelligente, è così. È come se fosse scritta da quei simpatici di allora. Per farvi dei nomi, Antonio Ricci o la Gialappa. Sto facendo esempi giusti, perché davvero seducenti. La Gialappa ci piace, ci fa ridere. Ma cosa fa? Si accanisce contro qualcuno. Contro i calciatori che sbagliano il congiuntivo, i commentatori che dicono stupidaggini, quelli che fanno i pronostici che si rivelano sbagliati. Si accaniscono perfino contro i ragazzi del Grande Fratello, più stupidi, più deboli e più nudi di loro. Noi li guardiamo in televisione, ridiamo e ogni volta ci sentiamo migliori dei calciatori, dei commentatori e dei ragazzi del Grande Fratello. Dopo ogni puntata di questi programmi comici, ci sentiamo più allegri e soprattutto più forti. È come se ci accarezzassero, ci strizzassero l’occhio e dicessero: noi siamo migliori degli altri. proprio come faceva il simpatico a scuola, se ti alleavi con lui.
Se aprite le prime pagine di Tre uomini in barca di Jerome, per intenderci, scoprite una cosa completamente diversa. Lì c’è il narratore che legge un trattato di medicina e comincia immediatamente a soffrire di tutti i disturbi che il trattato descrive. Immediatamente, e nemmeno in modo simbolico, ma addirittura pratico, il narratore si indebolisce. Invece di diventare più forte, come Antonio Ricci (che addirittura, lo vedete nelle foto?, a furia di dire cattiverie sugli altri, ringiovanisce!), diventa più debole. I tre uomini in barca non si guardano intorno e ridono degli altri, ma di se stessi. Noi ridiamo di loro. Perché loro fanno danni, ma a loro stessi.
Il comico che ha qualche valore non si rivolge agli altri, ma a se stessi. Non è quello degli stupidari medici o delle barzellette contro i carabinieri. È quello dello humour verso la condizione della propria esistenza. Per questo acquista la terribilità di cui parla Flannery O’Connor, quando dice: "In base alla mia esperienza, ogni cosa divertente che ho scritto è più terribile che divertente, o divertente perché terribile, o terribile solo perché divertente". In questo ridere di se stessi, si ritrova mista alla comicità una malinconia, un vuoto, uno sprofondamento; qualcosa che mentre ridi pensi che non c’è niente da ridere. Che ti riguarda. Quelli che scrivono o puntano il dito contro gli altri, non sono dei veri comici. Perché dentro il ridere degli altri non c’è nessuna messa in gioco dell’esistenza. Non ci si sente ultimi. Totò nei suoi film è sempre l’ultimo, Chaplin è sempre l’ultimo. Fracchia e Fantozzi sono gli ultimi. Provate a farlo da soli questo gioco. Provate a vedere se Woody Allen ride di se stesso o degli altri; se essendo ebreo, ride degli ebrei oppure ridicolizza le altre culture.
C’è poi un’altra componente della comicità autentica: non fare nessun danno. Un atto arbitrario – come quando Campanile mette deliberatamente a confronto gli asparagi e l’immortalità dell’anima e conclude la presentazione delle differenze con: "Inoltre, gli asparagi si mangiano, l’immortalità dell’anima no." Il comico può fare danno a se stesso o non fare nessun danno, come se fosse una certificazione dell’inutilità. Il resto, quei simpatici che a scuola prendevano in giro i bassi, gli alti, i foruncolosi, i curvi e i balbuzienti, sono un’altra cosa.

Francesco Piccolo

Francesco Piccolo è scrittore e sceneggiatore. Per Feltrinelli ha pubblicato Storie di primogeniti e figli unici, E se c’ero, dormivo, Il tempo imperfetto, Allegro occidentale. Per Einaudi, La separazione del …