Paolo Di Stefano: "Noi, ex bambini, guariti dalla leucemia"

09 Giugno 2004
Shakespeare invita a dare parole al dolore: "perché la pena che non si esprime ordina al cuore di spezzarsi". Ieri, all'Istituto Europeo di Oncologia, non c'erano cuori spezzati. Il dolore della leucemia li ha forse feriti ma non spezzati. Esiste un orribile neologismo tecnico per definirli: "lungo-sopravviventi". Ma loro vorrebbero essere considerati, più semplicemente, "guariti". Senza virgolette: guariti e basta. E se a dirlo è Giuseppe Masera, esperto di ematologia pediatrica o più banalmente di leucemia infantile, c'è da crederci. È stato Masera, con un tono da buon padre di famiglia, a introdurre i lavori: un bilancio dei primi vent'anni di attività nell'ambito delle leucemie al San Gerardo di Monza, che nel settore è un centro di eccellenza di livello mondiale. Un bilancio messo a fuoco via via dai vari componenti dell'équipe medica e reso palpabile dall'intervento degli ex malati, guariti, "lungo-sopravviventi", chiamateli come volete. Qualche numero. Ogni anno in Italia vengono colpiti da tumore del sangue circa 500 bambini; tra zero e 14 anni i tumori che affliggono i bambini sono in tutto 1500. I progressi sono vistosi: se nell'82 i casi di sopravvivenza erano il 70 per cento, nel '95 sono saliti all'86 per cento. Grazie non solo alla ricerca scientifica (i due nomi internazionali più noti sono quelli di Hansjoerg Riehm e di Don Pinkel), ma anche all'intenso scambio tra centri di lavoro internazionali (cui collaborano da protagonisti i medici di Monza e Milano) e a quella che Masera ha definito una vera e propria "alleanza" tra medici, genitori e volontari (in Italia il gruppo familiare più attivo è il Comitato Verga). Le diapositive proiettate sulla parete di fondo della sala conferenze dell'Ieo, con i volti sorridenti di dieci ex malati fotografati durante la cerimonia di matrimonio, sono esemplari. Le terapie si sono molto affinate e i trapianti di midollo osseo, sempre meno rischiosi, si moltiplicano (raddoppiati negli ultimi cinque anni: fino a oggi, nel 2004, solo a Monza sono 350, hanno spiegato Valentino Conter e Cornelio Uderzo). "Che cosa significa guarire?", si è chiesto Moncillo Jankovic. Un soggetto guarito è colui dal quale è scomparsa la malattia dopo due anni di osservazione. Un soggetto sano è colui il quale ha compiuto un pieno recupero della propria integrità fisica, psicologica e sociale. Dei 641 guariti del San Gerardo, una trentina erano presenti ieri ad ascoltare le considerazioni del team medico che li ha curati. Andrea Biondi, uno degli specialisti, ha illustrato le peculiarità della "leucemia linfoblastica" e i successi dovuti al contributo della genetica molecolare, in virtù dalla quale "probabilmente, in un futuro non troppo lontano, oltre che curare si potrà prevenire la malattia". Ma i guariti erano lì a testimoniare, spesso con le madri e i padri che hanno vissuto con loro il lungo incubo. Il che, come auspicava Masera, ha sgombrato subito il campo da preoccupazioni specialistiche per proiettare tutto sul piano dell'esperienza umana. A citare Shakespeare è uno psicologo, Alessio Gamba. Il quale ha osservato per anni gli effetti del dolore e della sofferenza sulla fragile psicologia dell'infanzia, cercando di porvi rimedio. "Per il bambino - dice - è molto difficile distinguere tra sofferenza fisica, emotiva e psicologica, perché ha meno consapevolezza e tende a vivere l'immediato. Però è molto più reattivo dei grandi. La sua paura della malattia tiene conto anche degli aspetti relazionali e quindi dipende molto dalla capacità che ha l'adulto di gestire l'angoscia. Lo sguardo della madre riesce a modulare la sua ansia, a tenerla a bada o ad aumentarla". A vederli oggi, gli ex bambini del San Gerardo, sono persone serene. Forse più di altre. Ventenni, trentenni, quarantenni che hanno attraversato la penombra, se non il buio pesto, per riemergere alla luce. Lorena Agliardi, con i suoi 47 anni, è una pioniera. Ricorda i silenzi di Masera, ma ora gli dà del tu come a un vecchio amico. I suoi figli hanno attraversato il suo incubo a ritroso e parlano dell'autoironia della mamma, della sua capacità di sdrammatizzare. Lei ha le lacrime agli occhi quando Ivano, 22 anni, ricorda: "Non sono stato un figlio modello, ma quando combinavo qualche guaio mia mamma mi diceva sempre: non preoccuparti, vai tranquillo, vai avanti, c'è di peggio nella vita". Davide Spazzapan, 18 anni, si definisce un "reduce", si è ammalato nell'88 quando aveva due anni. Ora è vicino alla maturità: "La mia infanzia - ha detto - è la leucemia. La difficoltà maggiore è stata quella di trovare qualcuno che sapesse ascoltarmi, però ora mi accorgo che sono cresciuto prima degli altri". Elena Giovanardi ha 31 anni e pochi ricordi: "Era il '74 e avevo 14 mesi quando mi hanno diagnosticato la malattia". È operaia in una serra e ci fu un medico che, quando seppe che voleva fare quel lavoro, si rifiutò di firmare il certificato di buona salute. Denise si ammalò nel '92, quando aveva 9 anni: "Ero consapevole, non urlavo durante le trasfusioni, ero tranquilla. Oggi se mi chiedono che cos'è il taglio che ho sul collo, faccio prima a dire che mi hanno accoltellata in discoteca piuttosto che stare a raccontare tutta la mia odissea". Sua madre si chiama Franca e sorride. Dice che si è ammalata della stessa malattia e che come Denise, anche lei ce l'ha fatta: "Non bisogna mai perdere il buonumore". Anche con una sorella morta di leucemia nel '65, quando ancora il San Gerardo non c'era e le cure non esistevano. Eppure, il Prof Masera esclude che si tratti di malattia ereditaria e si lascia andare a un'esclamazione: "Ma questa è sfiga cosmica!". L'architetto Alfredo Bellomo ha 34 anni ed è papà da tre mesi. Si ammalò dodicenne nell'82: "Quando guarii mi dissero che il problema era che forse non potevo diventare padre". "Per fortuna abbiamo sbagliato", incalza Masera, visibilmente contento dell'errore. Marta Cosentino ha solo 17 anni e dei bei capelli ondulati che le cadono sulle spalle. È in "stop terapia", come si dice, da un decennio: "Ricordo solo che il dottor Uderzo non mi faceva male durante il trapianto di midollo e oggi posso solo dire grazie a tutti. È la prima volta che riesco a parlare della mia malattia, non ho mai voluto che fosse un'attenuante se non riuscivo a raggiungere i miei obiettivi. Forse è un bene che abbia solo un ricordo vago di quegli anni... ". E forse è un bene, per sé e per gli altri, che finalmente sia riuscita a dare parole al suo dolore. Come consiglia Shakespeare.

Paolo Di Stefano

Paolo Di Stefano, nato ad Avola (Siracusa) nel 1956, giornalista e scrittore, già responsabile della pagina culturale del “Corriere della Sera”, dove attualmente è inviato speciale, ha lavorato anche per …