Umberto Galimberti: Nel cognome della madre

29 Luglio 2004
La corte di Cassazione ha sollevato dubbi di costituzionalità in ordine all'automatica assegnazione ai figli del cognome paterno. La questione passerà alla Consulta, la quale esprimerà il suo parere su una questione che non è di piccola importanza, perché investe secoli di storia, di cultura, di credenze mitologiche, filosofiche, religiose. Riferisce a esempio l'antropologo Malinowski che nelle isole di Trobriand, dove non si riconosce al maschio il minimo contributo fisico nella procreazione, a detta delle madri, i figli assomigliano tutti al padre, perché questi, andando a letto con la madre "coagula" il volto del figlio. Il termine kuli, usato a questo proposito significa, infatti, nella traduzione di Malinowski, "coagulare", "plasmare", "dare l'impronta" e quindi il nome. Allo stesso modo in Africa i Dogon che abitano il Mali ritengono che nel corpo del padre si trovi il "disegno" del figlio, i cui elementi si raccolgono nel "buon sangue bianco" che è lo sperma che, nella femmina, fa coagulare la materia informe. Queste credenze primitive acquistano dignità filosofica con Aristotele per il quale: "La femmina offre solo la materia, il maschio la forma. Per cui il corpo ha origine dalla femmina mentre l'anima dal maschio. E l'anima è l'essenza del corpo". Questa concezione la ritroviamo pari pari anche nella narrazione cristiana della nascita di Gesù dalla Vergine, dove la donna fornisce la materia, e lo Spirito (santo) la forma. Gesù infatti, come nelle credenze degli abitanti delle Trobriand, come presso i Dogon, come nella speculazione di Aristotele, è simile al Padre, anzi: "Io e il Padre siamo uno", e la madre ne accoglierà il corpo nel sudario quando lo spirito avrà lasciato la carne. Che dicono queste credenze? Dicono che la distinzione maschile/femminile non fa riferimento tanto al contributo biologico nella generazione, quanto alla differenza tra la "forma", il "tipo", l'"idea", il "modello" di cui il maschio è portatore, e la "materia" di cui la donna è depositaria. La coppia genitoriale "paritetica" nella generazione biologica diventa "gerarchica" nella rappresentazione sociale, per cui il significato di "madre" si risolve in quello di "genitrice", mentre il significato di "genitore" si eleva a quello di "padre". Per questo si celebra "il nome del padre", perché la distinzione maschile/femminile, non è solo "fisiologica", ma è soprattutto "ideologica" perché, separando la riproduzione sessuale da quella sociale, consente di neutralizzare la natura nella cultura che, prodotta dall'uomo, è per ciò stesso il territorio del suo incontrastato dominio. Con l'emancipazione della donna che, grazie agli anticoncezionali, può vivere la sua sessualità non come un destino ineluttabile, ma come una libera scelta, il "nome del padre" può incominciare finalmente a vacillare, perché la donna si è riscattata dal suo corpo e quindi dalla materia in cui era confinata e, al pari dell'uomo, è entrata nella cultura e nella società come creatrice di idee e libere scelte. E se il nome, come nella tradizione che va dai primitivi a noi, è il sigillo dello spirito, anche le donne devono avere la possibilità di trasmetterlo ai loro figli. E questo non tanto perché nei paesi scandinavi e in altri dell'Europa del Nord già esistono dispositivi legislativi che lo autorizzano, ma perché, consentendolo, si riscatta la donna da quella millenaria ideologia che la vuole relegata nella pura materia, vincolata al suo corpo, a sua volta visualizzato solo come corpo di generazione. A meno che, al pari dei medioevali, ancora non si ritenga che la donna non disponga dell'anima, metafora dello spirito, o più semplicemente della persona riconosciuta nella libertà delle sue scelte. Alla Consulta il parere definitivo. Ma chi dovrà decidere sappia che il "nome del padre", che ha regolato l'organizzazione sociale fino ai giorni nostri, non è espressione di diritto divino, ma retaggio di quella mentalità che prevede la supremazia del maschio sulla donna visualizzata come semplice materia. Qui la rotta è da invertire, ma il processo non sarà facile, perché se le nostre donne non portano il burka, forse le nostre idee lo portano ancora.

Umberto Galimberti

Umberto Galimberti, nato a Monza nel 1942, è stato dal 1976 professore incaricato di Antropologia Culturale e dal 1983 professore associato di Filosofia della Storia. Dal 1999 è professore ordinario …