Fuga d'amore. Sibilla Aleramo & Giovanni Papini

24 Agosto 2004
«Il nostro amore. Primavera 1912. Quarantaquattro anni fa. Non lo avevo più rivisto, se non in qualche rapido incontro occasionale, fra la gente. Dolce e violenta passione, la nostra, come poche altre. E, per me, una di quelle mortificate passioni spietate ferite desolate solitudini». Ha 80 anni la Aleramo quando consegna al diario queste sofferte memorie. Lo fa alle 13.30 dell’8 luglio 1956, appena appresa dalla radio la notizia della morte di Giovanni Papini. Un ricordo pungente, se si riaffaccia ancora il 10 luglio: «Io mi ripresi, qualche mese dopo, amai altri, ma forse, ma forse quelle due settimane son rimaste nel ricordo "uniche" di gioia incantata». Due sole settimane con colui che «in cuore chiamai Arno», perché «subito si riprese, rinunciò, forse non aveva capacità di soffrire, di lottare». Due settimane che il 28 settembre 1944 le fanno definire Papini «uno degli uomini che ho amato più intensamente». Tutto era cominciato il 18 gennaio 1912, a Firenze, in Lungarno Grazie 14. Un inizio alla Paolo e Francesca in ruoli rovesciati, perché anche qui «Amor, ch' al cor gentil ratto s’apprende, / prese costei della bella persona». Accade allorché Papini, enfant terrible della cultura italiana alle prese con la crisi interiore che gli detta le intense pagine di Un uomo finito (1913), incontra Astrid Anhfelt, giornalista svedese amica di Sibilla, depositaria delle traduzioni di Strindberg per l’Italia. Per due ore e mezzo la Anhfelt detta e Papini scrive, mentre, appartata, Sibilla contempla «seduta sul divano, fuori del cerchio di luce che metteva invece in risalto la figura di Papini, il suo bizzarro profilo di fanciullo stravolto che si ricorda di aver sorriso, la sua chioma ricciuta e irsuta, il busto sottile e vigoroso. In un certo momento ho sentito quella chioma come una cosa staccata da quella persona, vivere con selvaggio rigoglio, bella nel suo bagliore di rame». E s’accende per quei «grandi occhi verdi come l’Arno che gli ha dato il nome», come narrerà poi ne Il Passaggio (1919), il romanzo-confessione in cui raccoglie sei anni d’amori, da Cardarelli a Boine, Cascella, Franchi, Boccioni (il solo che non l’abbia per nulla ricambiata), Campana. D’altra parte, Sibilla ha appena chiuso col giovane Cardarelli, il ragazzo - come lei stessa scrive - «da tutti ritenuto suo amante che non l’ha mai posseduta, che un misterioso tremore ha arrestato nel desiderio». E, ora, c’è solo Papini nei suoi pensieri. Non ci dorme, persino, annota il 3 febbraio: «Il sonno venne tardi nella notte. Ma lo attesi senza smania, in un semitorpore quasi d’ebbrezza svanita; un’immaginazione m’ondeggiava nello spirito: che all’indomani avrei visto Pap. e gli avrei preso una mano, l’avrei messa per qualche secondo sulla mia fronte; e, senza parlare, avremmo così segnato un patto di fraternità... Stamane mi sono destata all’alba, ho cercato invano di riaddormentarmi. Mi son levata alle nove, come al solito. Pap. non è venuto». Ma all’istantanea accensione di lei, «pellegrina d’amore» (così Croce) che vive un’incoercibile coazione da amante-madre ad «amare qualcuno che tremi per la mia bellezza e insieme per la mia grandezza», Papini risponde con lentezza. Anche perché è sposato e padre. Si frequentano in pubblico e a casa di lui, dove la bellissima Sibilla - ricorderà Viola Papini - giunge «incipriata di bianco gesso, la capigliatura ingombrante a grandi volute d’oro», portando «caramelle per noi bambine dentro una stravagante borsetta», accolta con simpatia dalla moglie Giacinta. Ma la passione di Sibilla è avvolgente e totale. E lucida. Come quando sul «Marzocco» del 25 febbraio 1912 recensisce Parole e sangue di Papini sottolineandone quegli aspetti modernissimi già presenti ne Il tragico quotidiano (1903) e ne Il Pilota cieco(1907), che anni dopo avrebbero attratto Borges. Finché, la «meravigliosa sera» del 23 maggio, il primo bacio: con Papini che sente «il mondo sotto specie di sublimità in quei pochi minuti come rade volte ho sentito». Seguono giorni per i quali «non ci sono parole quando la meraviglia di vivere è così grande. Ora di silenzio, ora di sosta, tu soltanto sei l’amore, tu che tutta la mia passione prendi fra le tue braccia soavemente e la sollevi leggera leggera. Siamo soli nella casa deserta, nessuno sa che siamo qui assieme, nessuno verrà a battere alla porta. Una potrebbe unica venire: la morte. Se venisse? Se ci trovasse avvinti, cuore su cuore, labbra su labbra?». È un Papini che si scioglie; le scrive lettere d’amore; con «il colmo» a Livorno, dove l’accompagna di nascosto quando a fine maggio Sibilla s’imbarca per la Corsica. Non ha rimorsi e dubbi: la moglie e Sibilla sono «in fondo, due affetti puri ma su piani diversi, in due sfere assolutamente differenti». Almeno sino all’arrivo di una lettera di lei che Giacinta non apre pur nutrendo sospetti. E chiede lumi. Invano. Ne soffre. Piange per due intere notti proprio lei, «una donna ch’io ho visto sempre sorridere», ricorda Primo Conti. S’ammala. «Io l’ho vista soffrire e n’ho avuto pietà e ho pensato che non è sola», scrive Papini il 30 giugno. «Ho pensato che forse io non ho il diritto di disporre così della vita di tre persone che aspettano tutto da me e soltanto da me». Che fare? Fingere? Confessare? Lasciare Giacinta? «Tu hai già indovinato la dolorosa soluzione a tutto ciò. Dobbiamo esser noi a sacrificarci». Ed è il leitmotiv che torna nelle lettere successive, addolorate e finalmente per nulla letterarie nel raccontare rimorsi, ammissioni d’errore, volontà di rinuncia. Ma nelle lunghe lettere quotidiane Sibilla dichiara di non volersi adeguare. Finché Papini passa a un diverso tono. Dal «Tu» al «Voi»; con richiesta «di rimandarmi tutte le lettere mie degli ultimi tempi» (Sibilla lo farà solo nel 1928). Lei cerca persino d’ingelosirlo narrandogli d’un bellissimo tunisino. Inutilmente. Non solo Papini non intende «tornar sul passato» ma la prega di non tornare a Firenze, evitando poi i tentativi di lei, disobbediente, di incontrarlo. Ed è la fine, nonostante l’insistenza di Sibilla. Che passa allora ad altro tipo di lettera. Una «Lettera non spedita». A Giacinta, «Da sorella a sorella». Ed è Trasfigurazione (pubblicata sulla «Grande Illustrazione», ottobre 1914 come «novella»): con la richiesta di rinunciare al suo uomo in nome d’un amore tanto più intenso da essere più sacramentale del loro stesso matrimonio. Per Sibilla, quasi una forma terapeutica per una «vicenda intima per la quale rasentai la pazzia», che l’ha portata a rileggersi nelle parole in cui George Sand confessava a De Musset d’aver «sofferto più volte: mi sono spesso ingannata, ma ho amato: sono io che ho vissuto, e non un essere fittizio creato dal mio orgoglio e dalla mia noia». Commentando: «È sorte d’ogni grande esistenza raccogliere, insieme a profondi consensi, qualche crudele incomprensione, qualche ingiusto e livido oltraggio. Così come è fatale che niun estraneo, né fra i contemporanei né fra i posteri, debba mai penetrare completamente il segreto d’una storia d’amore, anche se i protagonisti non solo la vissero ma la scrissero. Fatale, e provvidenziale. Perché dove mai altrimenti ne andrebbe il fascino, la magia, il supremo valore?».

Sibilla Aleramo

Sibilla Aleramo (1876-1960) è stata una scrittrice e poetessa italiana. Il suo primo romanzo, Una donna, uscì nel 1906, seguito soltanto nel 1919 da Il passaggio. Della sua vasta produzione …