Massimo Mucchetti. Fondazioni, non rende il legame con le banche

01 Settembre 2004
Dopo le dimissioni di Giulio Tremonti, che aveva invano cercato di sottometterle al ministero dell'Economia, le fondazioni bancarie possono esercitare senza remore un ruolo rilevante nell'alta finanza. A suggerirlo non sono solo le ambizioni dei loro amministratori, ma anche i bilanci. In attesa del rapporto generale dell'Acri, abbiamo analizzato i conti delle 12 principali il cui patrimonio netto aggregato, 27 miliardi di euro, rappresenta il 70% del totale. Si tratta delle fondazioni Cariplo, Monte dei Paschi, San Paolo, e delle Casse di risparmio di Verona, Torino, Roma, Cuneo, Firenze, Padova, Genova, Bologna e del Banco di Sardegna. Nessuna di queste ha perso soldi nel 2003, a differenza del 2002 quando Roma aveva patito un salasso. L'avanzo di gestione sfiora gli 1,4 miliardi e non comprende i guadagni di Verona, che ha venduto azioni UniCredit e ha portato la plusvalenza a patrimonio. Buona parte di questa somma, 900 milioni, è destinata alle erogazioni, la vecchia beneficenza. Il resto dovrebbe difendere il patrimonio dall'inflazione. Ma non basta: i mezzi delle fondazioni (patrimonio netto, plusvalenze teoriche e stanziamenti non ancora erogati) arrivano infatti a 40 miliardi e l'accantonamento supera a stento l'1%. Questi mezzi sono investiti per 16 miliardi in strumenti finanziari e per il resto in partecipazioni. Il rendimento netto aggregato rispetto al patrimonio contabile aumenta dal 4,6 al 5,2%, ma basta ricalcolarlo sul patrimonio rivalutato ai prezzi di mercato per avere un non esaltante 3,4%. Naturalmente, ogni fondazione fa storia a sé, e tuttavia emergono tre costanti: 1) la gestione del patrimoni non è troppo costosa (in media 0,3%); 2) la dipendenza dai dividendi delle banche d'origine resta forte (il 43% dell'avanzo); 3) l'investimento della liquidità, dopo le recenti scottature, si è fatto fin troppo prudente. Il legame con le banche d'origine si traduce nella partecipazione a sindacati azionari o a un controllo diretto (Monte dei Paschi, Carige, Carifirenze) che non di rado impegna più risorse - circa il 40% dell'investito - di quelle strettamente necessarie a garantire la stabilità degli assetti. Questa scelta si giustificherebbe nell'attesa di un apprezzamento borsistico. In realtà, nonostante la ripresa del 2003, negli ultimi cinque anni le banche hanno bruciato un quarto del loro valore. Le fondazioni hanno così perso molte occasioni per valorizzare l'investimento. Il caso della Fondazione Monte dei Paschi è clamoroso, ma non unico. La plusvalenza teorica sulla partecipazione è ancora di 1,7 miliardi, ma oggi il titolo Mps quota 2,3 euro mentre nel 2001 era arrivato a 4,7. Se, anziché inventarsi ogni genere di operazioni per non vendere, la fondazione Mps fosse scesa, com'è scesa, al 49% vendendo qualcosa, oggi sarebbe più ricca. D'altra parte, non si fa molto denaro con le obbligazioni perché rendono troppo poco. L'operazione più brillante in questo campo è stata la sottoscrizione dei titoli della Cassa Depositi e Prestiti che rendono il 3% oltre l'inflazione con possibilità di rimborso a scadenza: azioni che sembrano il migliore dei bond. Altre opportunità possono venire dalla partecipazione al project financing di opere pubbliche ben scelte. Ma a questo punto la strada maestra appare quella di aprirsi all'investimento azionario in una logica di ampio respiro. Torino lo ha fatto partecipando alla privatizzazione di Autostrade, e ora ha un valore triplicato. Verona ci sta provando con le Generali: ufficialmente sta guadagnando il 10%, ma la prospettiva rimane da chiarire. Certo, per salvare gli equilibri patrimoniali, le risorse per la svolta dovrebbero venire principalmente dall'ulteriore riduzione dell'impegno nelle banche d'origine. E, per evitare l'uso improprio di risorse comunque pubbliche, le decisioni devono essere molto trasparenti.

Con la consulenza tecnica di Miraquota

Massimo Mucchetti

Massimo Mucchetti (Brescia, 1953) è oggi senatore della Repubblica. Ha lavorato al “Corriere della Sera” dal 2004 al 2013. In precedenza, era stato a “l’Espresso” per diciassette anni. E prima …