Massimo Mucchetti: Al via la stagione delle vendite di Stato. Ma i privati si ritrovano con pochi mezzi

01 Settembre 2004
Le privatizzazioni annunciate dal ministro Siniscalco impattano su un capitalismo industriale assai cambiato nel suo gruppo di testa, che abbiamo convenzionalmente identificato nei 20 gruppi maggiori. Rispetto al 1993, vigilia della prima campagna delle privatizzazioni, i gruppi non dominati dallo Stato sono aumentati da 11 a 15. Tra questi si sono imposti molti volti nuovi: i Benetton (Edizione), Pietro Guindani (Vodafone), Pasquale Pistorio (StMicroelectronics), Marco Drago (De Agostini), Emilio Riva (Riva Acciaio), Vittorio Merloni (Merloni Elettrodomestici), Leonardo Del Vecchio (Luxottica). Una galleria alla quale va aggiunto Marco Tronchetti Provera perché, quando un gruppo come Pirelli moltiplica per sei i ricavi aggregati, diventa nuovo anch'esso.

Un cambio radicale?
Questo ricambio, tuttavia, è meno radicale di quanto appaia. Per quattro ragioni: 1) nessuno, tranne Vodafone (l'ex Omnitel) viene dal nulla; 2) benché in cinque casi la crescita avvenga nel core business, lo sviluppo più rilevante si registra nei gruppi che diversificano passando dalla manifattura ai servizi: Pirelli con la telefonia, Benetton con ristorazione e autostrade, De Agostini con giochi e assicurazioni; 4) solo StMicroelectronics è attiva nelle alte tecnologie; 5) in due casi, Pirelli e De Agostini, le acquisizioni sono state finanziate, quanto al capitale di rischio, dalla dismissione di tre società (Optical Technologies, Seat Pagine Gialle e Matrix) così fortunata per i venditori che i compratori hanno dovuto ben presto svalutare le acquisizioni in misura radicale: difficile trovare altri portafogli altrettanto gonfi per la strada. Degli 11 gruppi privati del 1993, due erano esteri (Ibm Semea e Unilever Italia) e due non erano quotati (Fininvest e Barilla). Dei sette rimanenti, ben cinque avevano in Mediobanca il punto di riferimento. Nel 2003, i gruppi esteri sono ancora due (Ibm e Vodafone, e sarebbero tre se Unilever rendesse disponibili i conti italiani), i non quotati tre (Barilla, Riva e De Agostini, che in Borsa ha solo Lottomatica). Nessuno fa più riferimento a un potere sovrastante com'era la Mediobanca di Enrico Cuccia e Vincenzo Maranghi. Ciascun capitalista è re in casa sua. In alcuni casi, peraltro assai diversi tra loro, e cioè in Fiat, Italenergia e Pirelli, accanto ai capitalisti ci sono le banche, ma le banche non vogliono, e forse nemmeno saprebbero, esercitare la stessa egemonia della vecchia Mediobanca. La domanda, a questo punto, è: ma questo capitalismo industriale ha i mezzi per far fronte a un secondo giro di privatizzazioni o deve sperare che il governo si limiti a "false privatizzazioni", com'è il collocamento di mere quote di minoranza? Durante i lavori preparatori della Costituente, il presidente della Confindustria di allora, Angelo Costa, riconobbe che, data la storica debolezza della sua parte, una serie di investimenti sarebbero rimasti compito dello Stato. Cinquantotto anni dopo, Montezemolo ha l'occasione per prospettare una strada nuova o per confermare, mutatis mutandis, l'antica. Nel frattempo, ci possiamo fare un'opinione lasciando parlare i bilanci. Il supergruppo italiano 2003, nel suo complesso, appare solido dal punto di vista patrimoniale: i debiti finanziari, pari a 163 miliardi a fine d'anno, rappresentano il 55% del capitale investito; il loro costo, 14 miliardi compresi gli oneri sui cambi, assorbe il 39% del risultato operativo e dei proventi finanziari. È un debito non da poco, ha un costo non trascurabile, ma è ancora sostenibile perché si concentra nei gruppi più grandi dove, se si esclude Ifi-Fiat, si genera il maggior autofinanziamento. Dal punto di vista del rendimento, i ritorni migliori sul capitale investito (Roi) e sul capitale dei soci (Roe) li danno Merloni ed Eni. Questo genere di classifiche non è mai perfetto. La Rai, per esempio, figura in posizioni di eccellenza solo perché sostiene utile e risultato operativo con proventi non ricorrenti, mentre Vodafone viaggia in posizioni mediocri, perché accresce il patrimonio (rivalutando la sua banca dati) e diminuisce i risultati ufficiali (aumentando gli ammortamenti) allo scopo di risparmiare centinaia di milioni di imposte: una punta a fare bella figura sui giornali, l'altra a far contento il tesoriere (e non a caso il secondo gestore dei telefonini ha un margine operativo lordo del 51% sul fatturato, il più alto di tutti, poi vengono Fininvest con il 40,2 e Pirelli con il 39,2%). Ma alla fine le medie danno il senso di marcia dell'aggregato. E il senso di marcia è che i 5 gruppi pubblici hanno un Roe medio del 14,4% e un Roi del 9,9, mentre i privati danno rispettivamente il 5,2 e il 4,5%. L'uno per l'altro, insomma, i 15 gruppi non gestiti dallo Stato italiano appaiono appesantiti: pur facendo il 61% del fatturato, generano soltanto il 52% dell'autofinanziamento e il 31% dell'utile. La modestia dell'utile è dovuta al costo del debito (che rappresenta il 70% del campione) e all'ammortamento degli avviamenti sulle acquisizioni. È questa una situazione che dipende dalle scelte di investimento. Nel 2003 la spesa per investimenti, al netto delle dismissioni, arriva a 46 miliardi, ben più dell'autofinanziamento che si ferma a 40 miliardi. Ma solo poco più della metà potenzia la base produttiva, tutto il resto serve, come negli anni scorsi, a operazioni finanziarie. Anche questa sintesi non è perfetta: gli investimenti tecnici di Vodafone, per esempio, sono soprattutto l'effetto contabile della rivalutazione del data base, e dunque hanno poco di industriale; gli investimenti finanziari dell'Eni, invece, sono soprattutto l'acquisizione di imprese petrolifere, e cioè di pozzi, dunque sono finanziari solo nella forma. Ma il dato generale non cambia: gli investimenti "veri", legati all'economia reale, stentano.

La sfida di Siniscalco.
Se questo è il vertice industriale del capitalismo italiano, Siniscalco rischia di non trovare interlocutori con le riserve patrimoniali e le dimensioni adatte alle privatizzazioni più importanti. Il governo potrebbe mettere tutto in Borsa e lasciar fare al mercato. Ma i conti e la storia dell'ultimo decennio avvertono che, in una simile eventualità, Eni, Enel e Finmeccanica potrebbero essere facile preda dei concorrenti internazionali. Diversamente, soprattutto Eni ed Enel costituirebbero l'obiettivo perfetto di scalate finanziate a debito, poco importa se ad opera di industriali o di fondi di private equity appoggiati dalle banche nazionali e no. Il punto è che questo genere di scalate ha per presupposto la conferma, ogni volta ricontrattata tra i nuovi padroni e il governo, delle posizioni dominanti degli ex monopoli per avere la garanzia delle basi tariffarie, o comunque regolatorie, dell'autofinanziamento necessario a ripagare il debito. Con l'aiuto di colossali risparmi fiscali. Difficilmente, questo genere di scalatori possono anche puntare allo sviluppo. Padroni di tal fatta non sarebbero migliori dello Stato, che considera le "sue" aziende mucche da mungere più che erogatrici di servizi a buon mercato. È dunque possibile prevedere che, esaurita la vendita delle quote di minoranza (ora il 20 e domani un altro 10% dell'Enel), le privatizzazioni importanti si ridurranno, Eurostat permettendo, al trasferimento delle partecipazioni residue alla Cassa Depositi e Prestiti e, magari, agli investitori istituzionali esistenti, e cioè alle fondazioni bancarie e, perché no?, alla Banca d'Italia che, piena com'è di titoli Generali e non più minacciata da un ministro ostile, potrebbe pure prendersi un po' dei colossi dell'energia.

Massimo Mucchetti

Massimo Mucchetti (Brescia, 1953) è oggi senatore della Repubblica. Ha lavorato al “Corriere della Sera” dal 2004 al 2013. In precedenza, era stato a “l’Espresso” per diciassette anni. E prima …