Paolo Rumiz: A Lepanto, sul mare della storia
01 Settembre 2004
"Ah, Lepanto. La battaglia navale. Ma dove sta esattamente?", ci chiedono dalla barca accanto. Scende la notte, l'aria è immobile, il cielo brontola attorno a San Marco. La nostra Tretartarughe - un 12 metri costruito in Finlandia - è attraccata all'isola di San Giorgio, molo della Compagnia della Vela. Il più bel posto del mondo. Non c'è un turista, ma davanti hai Venezia che luccica dalla Giudecca all'Arsenale. Sì, andiamo a Lepanto. E Lepanto, come ogni luogo del mito, nessuno sa bene dove sia. Bisogna ripeterlo ogni volta. Sta nel golfo di Corinto, Grecia. Lepanto, 7 ottobre 1571, l'Alleanza cristiana che batte la flotta turca con l'aiuto decisivo delle galere veneziane. Lepanto, la Trafalgar del Mar d'Oriente; 30mila morti, nubi di frecce che oscurano il sole, il mare rosso di sangue. Lepanto, la voglia di tornarci dopo la guerra in Iraq. Per capire com'erano, allora, gli scontri di civiltà. Comincia a piovere, il mare è in bonaccia piatta, sull'isola si scatena una terrificante lite di gatti, i lampi illuminano punta della Dogana. Scendo sottocoperta, apro la mia carta. Ci navigo con la mente, cerco di immaginare le isole calve battute dal vento, le 900 miglia di mare nero che ci aspettano nella notte mediterranea. Non è una carta qualsiasi. è un foglio lungo 5 metri, piegato a fisarmonica, disegnato a mano, fitto di annotazioni. è la mappa della nostra rotta sulla costa orientale dell'Adriatico e dello Jonio: un arcipelago d'appunti e isole, il riassunto di chili di libri. Uno strumento indispensabile, visto che non si possono rimorchiare biblioteche e leggere in barca dà il voltastomaco. Una follia, forse. Come la carta degli oceani con cui Achab s'ostinò a cercare Moby Dyck. Chiamiamola Carta, con la C maiuscola. A furia d'aggiunte, cancellature e correzioni, vive ormai una vita parallela, è già usurata prima di partire. Normale: qui si viaggia su un mare di storia oltre che di acqua salata. Non ci trovi solo la strada delle galere da guerra, ma tante altre cose. La costellazione dei fari che ti guida in Terrasanta. Le basi dei pirati uscocchi e narentani, le incursioni di turchi e saraceni. La via dell'ambra e quella del sale, storie di mostri di mare e amori galeotti, bonacce e burrasche, santuari e cimiteri marini. I leoni di San Marco scolpiti nelle terre dei fedelissimi Schiavoni e sulle isole greche fino a Cipro. Le ville del maresciallo Tito e le basi dei sommergibili tedeschi, i porti della Marina da guerra asburgica, le rotte delle portaerei Usa durante la guerra jugoslava. Tuona, la pioggia tamburella in coperta, la Carta svela meraviglie. La corsa verso l'Istria degli Argonauti in fuga dalla Colchide (Mar Nero) col vello d'oro, i viaggi perigliosi d'abati, cartografi e scrittori, la navigazione di Ulisse e dell'apostolo Paolo, l'itinerario della quarta crociata che devastò Zara e Costantinopoli. Curzola, dove i genovesi presero Marco Polo prima della dettatura del Milione a Rustichello da Pisa. Metoni, la fortezza-prigione dove Cervantes scrisse Don Chisciotte dopo aver perso l'uso della mano sinistra a Lepanto. La grotta marina del pirata Ali Hagcà nascosta tra i picchi paurosi di Kara Buruni, Albania. Persino la fuga da Pescara di Vittorio Emanuele III dopo l'8 settembre '43. Ma anche la navigazione della bella Margherita; colei che, per sposare il re codardo, lasciò il natìo, selvaggio Montenegro. Fabrizio, lo skipper - ma chiamiamolo rispettosamente "Comandante" - è uno che non si dà pace, controlla le vele, brontola che il motore ausiliario gira male. è coautore della Carta, e vi aggiunge continuamente annotazioni: approdi favorevoli, locande sul mare, secche e scogli infidi, ripari in caso di burrasca. Teresa, la sua compagna, rassetta la cambusa. Nelle barche intorno si cena, arriva profumo di rosmarino e melanzane. Io sbatto la fronte sulle paratìe, non ho ancora preso le misure della barca. Non ho mai fatto vela per più di mezza giornata, soffro mal di mare e sono disperatamente di terra. Ma la voglia è troppo forte. Ci sarà pure un motivo per cui si dice "imbarcarsi" in un'avventura. Per Melville l'imbarco è l'irresistibile paradigma delle partenze. La fuga nel "mar grando", il vento oceanico, l'unico stacco possibile dalle penombre dell'anima. "Andare al largo": che magnifica frase. Ripassiamo sulla mappa l'avanzata dei Turchi nel Mediterraneo, negli anni precedenti allo scontro. I puntini gialli sono le loro basi, quelli rossi le fortezze veneziane. Fra Corfù e Rodi si mescolano in modo quasi inestricabile, dicono che la collisione d'interessi è tremenda. è la carta di uno scontro inevitabile: una storia perfetta, non manca nemmeno chi fa la parte del cattivo. è Selim II, descritto dai diplomatici veneziani come "più simile a un mostro che a un uomo", ubriacone, rozzo, ingordo e incapace. L'opposto del padre Solimano il Magnifico, il raffinato sultano che muore conquistando l'Ungheria, nel 1566. Selim vuole prendere Cipro, saldamente fortificata dai dogi, base fondamentale dei commerci con l'Oriente, e lancia ultimatum. Invade le Cicladi, punta addirittura a imbottigliare Venezia, impedirle l'uscita dall'Adriatico. Nessuno osa affrontare gli Ottomani, tranne i Cavalieri di Malta, che nel '65 hanno resistito a un micidiale assedio, respingendoli in mare. è solo dopo quell’evento che il Papa s'infiamma, capisce che l'armata "turchesca" si può battere, e spinge mezza Europa ad armarsi. Nel frattempo Selim II dà ordine di attacco a Cipro, e la conquista alla vigilia della battaglia. "Papà, ma un turco pol copar un altro turco?", chiede un bambino su un'altra barca, dove si ciacola della nostra partenza. Domanda legittima: nella testa dei veneziani il turco ammazza solo cristiani. Anzi, li scuoia, come Marcantonio Bragadin a Famagosta nell'anno di Lepanto. Lepanto scatenò l'immaginario dell'Occidente. Mosse processioni di prelati, mobilitò santi e abati, sollevò nuvole di incenso e te deum di ringraziamento. Fu evocata per secoli attorno ai focolari e negli ex voto: lanterne di galere, cannoni, bandiere, polene, stendardi deposti nella penombra delle cattedrali. Le furono dedicate tele a olio, colonne votive, porte di mare e di terraferma, persino montagne. Il "Gross Venediger", pilastro delle Alpi austriache, era il Gran Veneziano, l'ammiraglio Venier. Duro staccarsi da qui. Alla vigilia della partenza capita di perdersi in labirinti di isole e fondamenta, chiese e biblioteche. Cripte di capitani di mare esplorate con l'entusiasta priore di San Zanipolo; un polveroso retrobottega dietro palazzo Pisani alla ricerca d'un bandierone di San Marco per la barca. Una chiacchierata al bar con Massimo Cacciari; il giardinetto della fondazione Querini-Stampalia dove una bella greca ti spiega le guerre tra Venezia e Turchia; il periplo dell'Arsenale con un ex ufficiale di marina innamorato delle galere. Un calice di malvasia col novantenne, indomito Giulio Donatelli, il più vecchio velista veneziano, su una gran terrazza con vista, in un lussuoso pomeriggio di maestrale. E i corridoi del museo Correr, a caccia d'un codice secentesco di "Cose turchesche", racconto d'atroci impalamenti e delizie dell'harem. Mamma li turchi? Forse. Ma allora perché Venezia è piena di cose turche? In un pomeriggio trovo un fondaco dei Turchi in Canal Grande; un Campo dei Mori, piazzetta decorata con tre marmorei signorotti col turbante; poco in là, un bassorilievo con un cammelliere e la sua bestia. L'osteria "Rioba", dal nome d'un mercante moresco; le fondamenta degli Ormesini, dove cioè si lavoravano i tessuti di Ormuz. Tutto porta a Istanbul, come fosse l'altra riva. Il campanile di San Marco, con la campana che sembra chiamare il muezzin nel momento stesso in cui lo sfida. La concitazione all'uscita dei vaporetti, uguale a quella del Corno d'oro. I colori pastello, il vociare dei pescivendoli, l'arcipelago delle comunità mercantili: ebrei, serbi, greci, mori. Per un attimo il Bosforo par la foce di un fiume che parte dal Canal Grande e porta al Mar Nero, fino a Trebisonda. Dicono che nel '300 un Doge pensasse seriamente di trasferire a Bisanzio, allora non ancora presa dai Turchi, il baricentro dello "Stato da Mar". Strano, stranissimo scontro di civiltà. Alle 22 le previsioni meteo dicono che arriva vento di Sudovest, Libeccio, il mitico vento africano che prende il nome dalla Libia. Inutile dormire, bighelloniamo sulla Giudecca, ci spariamo un ultimo bicchiere al bar della Palanca. Fuori il temporale ha fatto sparire i turisti, Venezia è di nuovo Venezia. Alle due, le sartie cominciano a cantare. La pioggia smette di cadere, i gatti di litigare, cominciano le urla dei gabbiani. Che buon vento ci porti.
Paolo Rumiz
Paolo Rumiz, triestino, è scrittore e viaggiatore. Con Feltrinelli ha pubblicato La secessione leggera (2001), Tre uomini in bicicletta (con Francesco Altan; 2002), È Oriente (2003), La leggenda dei monti …