Paolo Rumiz: Arsenale, leggenda dimenticata
01 Settembre 2004
Quattro del mattino, il vento a poppa gonfia il Leone di San Marco, è ora di andare. La barca fila motore al minimo, va nel buio con tenui luci da discoteca. Acqua torbida, gabbiani, sensazione strana di essere su un fiume. Sottocoperta bolle il caffè, fuori la città dorme e tutto già parla del Turco. La riva degli Schiavoni, mitico imbarco per l'Oriente; il canale d'uscita dell'Arsenale, dove ai tempi del Grande Nemico si armavano anche venti galere al giorno; l'ombra cinquecentesca del forte di Sant'Andrea. È la soglia armata di Venezia tra laguna e mare aperto. Per chi esce, è la prima delle fortezze di San Marco che portano a Levante. Per chi entra, è la prima cosa che vedi della Serenissima. Una lapide ricorda la "Grande Vittoria". Lepanto non è nominata, non si nomina quasi mai a Venezia. Nemmeno la data è scolpita, tanto è ovvio che è quello l'evento. Fu un modello, il forte di Sant'Andrea: lo copiarono anche a Pietroburgo. Ma l'originale fece una fine ingloriosa. Sparò una volta sola, alla fine del Settecento, e quello sparo - contro un veliero napoleonico - segnò la fine della Repubblica. Oggi è coperto di erbacce, vergognosamente chiuso agli umani. Con dodici milioni di turisti l'anno, qui non hanno un baiocco per le glorie del mare. Il museo della navigazione è aperto a tempo dimezzato perché manca personale. L'Arsenale è area militare off limits, e qualcuno pensa di venderlo a Berlusconi, per farne un paese dei balocchi audiovisivi. Venezia ormai dimentica se stessa. In maggio correvano i 200 anni della nascita di Daniele Manin, l'eroe della rivolta antiaustriaca del '48. Non se n'è accorto nessuno. Neanche un garofano sulla tomba.
Una luce verde e una rossa. Le bocche di porto di San Nicolò, tra l'ombra del Lido e quella di Punta Sabbioni. Segnano l'ingresso nel Mar Grando ed è come se ti chiudessero alle spalle la porta di Venezia. Qui si tiravano le catene per blindare la città in tempi d'allarme rosso e si buttavano in acqua gli anelli dello "Sposalizio del mare". I marinai partendo invocavano la Madonna del Rosario, dedicata alla guerra col Turco dai papi della Controriforma. Esce qualche stella. Libeccio a dieci nodi, irregolare, con onda lunga. L'ora delle vele. La prua è sull'Istria, il motore dà gli ultimi colpi di tosse, sull'Adriatico scende il silenzio. A Nord l'ultimo, monotono cordone di sabbia della Padania. Non la vedremo più, puntiamo subito sulla costa Est, verso gli arcipelaghi degli "Schiavoni". Per la gente di terra può sembrare un non-senso lasciare una costa rettilinea come un'autostrada per infilarsi in un dedalo frastagliato. Invece ha senso eccome. Sulle coste piatte non hai riparo dalle tempeste, nelle altre invece sì. Lo sapevano già i Greci, che navigavano solo sul lato Est dell'Adriatico. Al tempo dei Turchi figurarsi. Per i veneziani le spiagge italiche erano da evitare come la peste, perché "imbrogliose per piogie et oscurità improvise et per mezelune et revelini et bombarde che fa la costa aspra et periculosa pe' legni de la Serenità Vostra".
E ora, con l'aurora che spunta, immaginiamo le galere che vanno; la partenza della flotta di Sebastiano Venier contro i Turchi in quel fine estate del 1571. Nella realtà le navi non salparono tutte insieme, radunare la flotta fu operazione lunga, diluita da Venezia fino a Corfù. Ma proviamo a immaginare il passaggio di una grande flotta a remi davanti a San Marco. Non è facile "vedere" un simile spettacolo avendo in mente le navi di oggi. Cento galere, cento navi affusolate, lunghe dai quaranta ai cinquanta metri, quindicimila rematori. Impossibile. Non c'è libro specialistico, non c'è manuale di storia che sveli l'anima di un evento così grandioso. Solo chi naviga davvero, chi conosce i segreti dei legni, può capire. Un disegnatore di barche a vela. Come il vecchio Carlo Sciarrelli, triestino, lupo di bordo, grande raccontatore e grande divoratore di biblioteche di mare. Lo risento, una sera nel suo giardino, davanti a un tavolo pieno di carte antiche, mimare a gran gesti la vogata dei rematori e narrare, in dialetto, quello straordinario preludio della battaglia. "Pensa al rumor de cinquemila remi che entra in acqua, pensa ale schene, al respiro de quindesemila gaeotti che voga in pie. Trentamila brazzi, trentamila polmoni. Iera quasi tuti s'ciavoni, i più forti e i più grandi de tuti. E po' le vele che se alza, i musicanti a puppa cole trombe, i tamburi, i nobili cole armadure, i soldai cole piume, le bandiere al vento, e tuta Venezia che varda. Ti viene la pelle d'oca. L'umanità non ha mai prodotto un'immagine più straordinaria della grandiosità". Per fare Lepanto devi moltiplicare per quattro questa già inimmaginabile grandiosità. Pensare a ventimila remi, una foresta vergine di legni che spazzano le schiume. Veneziani con genovesi, papalini, maltesi, napoletani. Navi perfette, il top del remo in simbiosi con la vela, una storia di duemila anni che parte dalla trireme greca e dalla "Navis Longa" di Roma. "Lepanto, apoteosi e fine di una leggenda che comincia a Salamina".
Il sole picchia, il vento gira a maestrale, gonfia le vele verso l'Istria, l'ombra delle galere ci segue ancora. È difficile staccarsi da Venezia senza fare i conti con quella che da sempre è l'ultima, folgorante visione di chi salpa da San Marco: l'Arsenale, madre di tutte le battaglie, cuore della serenissima potenza, prima grande industria dell'era moderna. Da qui sono uscite tutte le navi in legno di Venezia. Le galere si costruivano solo lì, nessun'altro nello "Stato da mar" aveva il permesso di farlo. Con Lepanto l'Arsenale visse il massimo dello splendore: tremilaottocento uomini a regime, ottanta cantieri aperti. Anche questa è un'immagine indescrivibile. Il formicolare di tagliatori, squadratori, lattonieri, stagnini, fabbri, fonditori, muratori, pompieri, falegnami, calafati, cordai. L'andirivieni di armaioli, maestri d'ascia, tessitrici di vele e filatrici di canapa, magazzinieri, fornai per la produzione del "biscotto". "Pensa a qualsiasi mestiere: l'Arsenale lo contiene" mi spiegava ieri lo storico Guglielmo Zanelli, aprendomi la porta dell'immenso cantiere. Dentro, la meraviglia. I padiglioni intatti dove vennero assemblate le vincitrici di Lepanto, le geleazze, galere da mercanzia armate con cannoni. La sapienza della stagionatura del legname; l'arrivo via acqua dei tronchi di rovere, faggio, larice, abete; il viaggio dei battellieri da Cadore, Cansiglio, Montello, Istria e Dalmazia, la ferrea disciplina che regnava in quello spazio blindato che ancora oggi la Marina italiana chiude con una catena. Si tagliava la mano ai ladri, in Arsenale. Si bruciava un occhio a chi non sorvegliava a dovere. Si impiccavano gli imbroglioni. Metodi islamici diresti oggi. E poi, a memoria dell'abominio, si fissava al muro dei cantieri una lapide ammonitrice con data, reato e sentenza.
Si punta su Parenzo in un cielo cobalto, l'Istria è una striscia verde scuro che manda già odore di terra. Salvia, polvere. Fame boia, sonnolenza, un maggiolino esausto si posa sulla tolda. Parenzo, ex base veneziana della corporazione dei piloti. Era obbligatorio seguire fin qui i loro barchini; nulla si muoveva che San Marco non volesse. L'Adriatico non lo chiamavano nemmeno "mare". Era il "canal", come dire un prolungamento del Canal Grande, uno spazio blindato, il golfo privato della Serenissima. Forse per questo la sua storia non è mai entrata nell'immaginario degli italiani.
Una luce verde e una rossa. Le bocche di porto di San Nicolò, tra l'ombra del Lido e quella di Punta Sabbioni. Segnano l'ingresso nel Mar Grando ed è come se ti chiudessero alle spalle la porta di Venezia. Qui si tiravano le catene per blindare la città in tempi d'allarme rosso e si buttavano in acqua gli anelli dello "Sposalizio del mare". I marinai partendo invocavano la Madonna del Rosario, dedicata alla guerra col Turco dai papi della Controriforma. Esce qualche stella. Libeccio a dieci nodi, irregolare, con onda lunga. L'ora delle vele. La prua è sull'Istria, il motore dà gli ultimi colpi di tosse, sull'Adriatico scende il silenzio. A Nord l'ultimo, monotono cordone di sabbia della Padania. Non la vedremo più, puntiamo subito sulla costa Est, verso gli arcipelaghi degli "Schiavoni". Per la gente di terra può sembrare un non-senso lasciare una costa rettilinea come un'autostrada per infilarsi in un dedalo frastagliato. Invece ha senso eccome. Sulle coste piatte non hai riparo dalle tempeste, nelle altre invece sì. Lo sapevano già i Greci, che navigavano solo sul lato Est dell'Adriatico. Al tempo dei Turchi figurarsi. Per i veneziani le spiagge italiche erano da evitare come la peste, perché "imbrogliose per piogie et oscurità improvise et per mezelune et revelini et bombarde che fa la costa aspra et periculosa pe' legni de la Serenità Vostra".
E ora, con l'aurora che spunta, immaginiamo le galere che vanno; la partenza della flotta di Sebastiano Venier contro i Turchi in quel fine estate del 1571. Nella realtà le navi non salparono tutte insieme, radunare la flotta fu operazione lunga, diluita da Venezia fino a Corfù. Ma proviamo a immaginare il passaggio di una grande flotta a remi davanti a San Marco. Non è facile "vedere" un simile spettacolo avendo in mente le navi di oggi. Cento galere, cento navi affusolate, lunghe dai quaranta ai cinquanta metri, quindicimila rematori. Impossibile. Non c'è libro specialistico, non c'è manuale di storia che sveli l'anima di un evento così grandioso. Solo chi naviga davvero, chi conosce i segreti dei legni, può capire. Un disegnatore di barche a vela. Come il vecchio Carlo Sciarrelli, triestino, lupo di bordo, grande raccontatore e grande divoratore di biblioteche di mare. Lo risento, una sera nel suo giardino, davanti a un tavolo pieno di carte antiche, mimare a gran gesti la vogata dei rematori e narrare, in dialetto, quello straordinario preludio della battaglia. "Pensa al rumor de cinquemila remi che entra in acqua, pensa ale schene, al respiro de quindesemila gaeotti che voga in pie. Trentamila brazzi, trentamila polmoni. Iera quasi tuti s'ciavoni, i più forti e i più grandi de tuti. E po' le vele che se alza, i musicanti a puppa cole trombe, i tamburi, i nobili cole armadure, i soldai cole piume, le bandiere al vento, e tuta Venezia che varda. Ti viene la pelle d'oca. L'umanità non ha mai prodotto un'immagine più straordinaria della grandiosità". Per fare Lepanto devi moltiplicare per quattro questa già inimmaginabile grandiosità. Pensare a ventimila remi, una foresta vergine di legni che spazzano le schiume. Veneziani con genovesi, papalini, maltesi, napoletani. Navi perfette, il top del remo in simbiosi con la vela, una storia di duemila anni che parte dalla trireme greca e dalla "Navis Longa" di Roma. "Lepanto, apoteosi e fine di una leggenda che comincia a Salamina".
Il sole picchia, il vento gira a maestrale, gonfia le vele verso l'Istria, l'ombra delle galere ci segue ancora. È difficile staccarsi da Venezia senza fare i conti con quella che da sempre è l'ultima, folgorante visione di chi salpa da San Marco: l'Arsenale, madre di tutte le battaglie, cuore della serenissima potenza, prima grande industria dell'era moderna. Da qui sono uscite tutte le navi in legno di Venezia. Le galere si costruivano solo lì, nessun'altro nello "Stato da mar" aveva il permesso di farlo. Con Lepanto l'Arsenale visse il massimo dello splendore: tremilaottocento uomini a regime, ottanta cantieri aperti. Anche questa è un'immagine indescrivibile. Il formicolare di tagliatori, squadratori, lattonieri, stagnini, fabbri, fonditori, muratori, pompieri, falegnami, calafati, cordai. L'andirivieni di armaioli, maestri d'ascia, tessitrici di vele e filatrici di canapa, magazzinieri, fornai per la produzione del "biscotto". "Pensa a qualsiasi mestiere: l'Arsenale lo contiene" mi spiegava ieri lo storico Guglielmo Zanelli, aprendomi la porta dell'immenso cantiere. Dentro, la meraviglia. I padiglioni intatti dove vennero assemblate le vincitrici di Lepanto, le geleazze, galere da mercanzia armate con cannoni. La sapienza della stagionatura del legname; l'arrivo via acqua dei tronchi di rovere, faggio, larice, abete; il viaggio dei battellieri da Cadore, Cansiglio, Montello, Istria e Dalmazia, la ferrea disciplina che regnava in quello spazio blindato che ancora oggi la Marina italiana chiude con una catena. Si tagliava la mano ai ladri, in Arsenale. Si bruciava un occhio a chi non sorvegliava a dovere. Si impiccavano gli imbroglioni. Metodi islamici diresti oggi. E poi, a memoria dell'abominio, si fissava al muro dei cantieri una lapide ammonitrice con data, reato e sentenza.
Si punta su Parenzo in un cielo cobalto, l'Istria è una striscia verde scuro che manda già odore di terra. Salvia, polvere. Fame boia, sonnolenza, un maggiolino esausto si posa sulla tolda. Parenzo, ex base veneziana della corporazione dei piloti. Era obbligatorio seguire fin qui i loro barchini; nulla si muoveva che San Marco non volesse. L'Adriatico non lo chiamavano nemmeno "mare". Era il "canal", come dire un prolungamento del Canal Grande, uno spazio blindato, il golfo privato della Serenissima. Forse per questo la sua storia non è mai entrata nell'immaginario degli italiani.
Paolo Rumiz
Paolo Rumiz, triestino, è scrittore e viaggiatore. Con Feltrinelli ha pubblicato La secessione leggera (2001), Tre uomini in bicicletta (con Francesco Altan; 2002), È Oriente (2003), La leggenda dei monti …