Paolo Rumiz: La baia delle navi fantasma
01 Settembre 2004
Improvvisamente, a sette miglia da Pola, l'ecoscandaglio dà i numeri. Il fondale dovrebbe essere piatto, 40 metri regolari, ma dopo il faro di San Giovanni in Pelago a Sudest di Rovigno, sale di colpo a 25. Strano, le carte nautiche non dicono niente. Navighiamo su questa massa sommersa per una ventina di secondi, poi il misuratore torna a quaranta. "Forse abbiamo sentito il Gautsch", sibila il Comandante. Che cosa? Sì, il Baron Gautsch, la prima nave colata a picco nella Grande Guerra. Un'unità passeggeri del Lloyd Austriaco che saltò in aria su una mina austriaca. Una storia che fu per il Mediterraneo quasi un Titanic. Dài che si torna indietro. Cerchiamo il punto. La bora ostacola la manovra, il fiocco fa il matto, la randa pure, tutta l'Istria ci ruota attorno. Ma ecco che lo scandaglio schizza in su, "urta" di nuovo la massa anomala. "Sì, è lui. Che mi venga un colpo se non è lui. È là sotto da 90 anni, dal 13 agosto 1914". C'è un gavitello che conferma la posizione. Il Comandante è in fregola. È su uno dei relitti più famosi del Mediterraneo. Uno dei più belli, anche. Le scuole di sub ci portano gli allievi. Posaterie e pezzi nobili sono già sparsi nei musei e nelle collezioni private. Sta eretto con i due comignoli su una prateria di alghe, naviga con le sue vite perdute nel mondo del silenzio.
Il Gautsch era diretto a Trieste, e l'area minata era bene indicata sul piano di navigazione. Come poté accadere? A Pola la leggenda del piccolo Titanic è ancora vivissima, e circola una piccante versione dei fatti. Il comandante Winter non stava in plancia. Non ci stava semplicemente perché si era portato una bella signora in cabina. E aveva dato ordine al primo ufficiale di avvicinarsi pure di qualche miglio alla zona off limits per arrivare prima a Trieste. Fatto sta che il primo ufficiale si annoiava, piegò ancora più sottocosta, poi lasciò pure lui la barra, rifilandola al timoniere. E questi, quando vide a prora una nave militare puntare sul campo minato, la seguì, pensando non ci fosse pericolo. Non capì che quella nave era il posamine. Da poppa dell'unità fecero mille segnali al piroscafo perché facesse macchina indietro. Ma il Gautsch non vide, non sentì. E saltò in aria.
La baia di Pola sigilla un altro mistero. La Viribus Unitis, ammiraglia e vanto della flotta austriaca. La colarono a picco, a due passi dai moli, due guastatori italiani con una mina sotto la chiglia, alle ore 6.29 del 2 novembre 1918. Quando ci passiamo sopra, l'ecoscandaglio non sobbalza, del gigante è rimasta solo una lamiera nel fango. A Pola tutti ricordano quando, dopo il '45, vennero gli ingegneri di Tito a spolparla per rifornire di ferro le acciaierie socialiste. S'è salvata solo l'ancora; sta all'Arsenale di Venezia. Un trofeo con poca gloria, a rileggere gli eventi. Ormeggiamo nella baia di Bagnole, e l'istruttore sub Aldo Verbanac ci racconta il giallo di quella notte. L'ammiraglio italiano Thaon di Revel manda i sub a minare il gigante. L'Austria è ormai sconfitta, l'armistizio imminente. I guastatori piazzano la bomba, ma quando riemergono sono catturati e portati sulla nave. A bordo hanno un triplice shock. Primo, i marinai nemici, essendo dalmati, parlano italiano. Secondo, sulla nave c'è una gran festa, e i sub - "venite, amici italiani!" - sono invitati a partecipare. Ma la cosa più incredibile è che la nave non è più austriaca. Da poche ore Vienna l'ha regalata al neonato regno di Jugoslavia. I marinai sono quelli di prima, ma per loro la guerra è finita. Per questo fanno festa. Come mai l'Italia non sa del cambio di bandiera? E se lo sa, come mai ordina l'operazione? I sub italiani, spiazzati, avvisano: filate, c'è una mina qua sotto. Ma nessuno ci crede, la ciurma è troppo allegra, la notizia inverosimile. Poco prima dell'alba i nostri lanciano l'ultimo allarme, dicono che manca poco al botto e si buttano in mare. Appena allora si scatena il panico, tutto l'equipaggio salta in acqua. Solo il comandante, che poveraccio è al suo primo giorno di servizio, sceglie di restare. E morire a bordo.
Già, ma Venezia che c'entra? C'entra eccome. Pola fu la Venezia austriaca. Gli ufficiali della marina da guerra si spostavano in gondola nel porto e davano alle ciurme ordini con le parole-base in dialetto veneto. L'ammiraglio Wilhelm von Tegethoff, che era nato a Maribor - Marburg - in Slovenia ma aveva studiato marineria a Venezia, alla battaglia di Lissa del 1866 contro i Savoia, diede in veneto al timoniere Nane l'ordine di speronamento contro la corazzata Re d'Italiache aveva il timone in avaria. Urlò: "Dèghe drento, Nane, dèghe drento de prora", dateci dentro di prua, e quando la nave italiana affondò con 600 uomini a bordo, si narra che dalle murate dell'ammiraglia Erzherzog Ferdinand Max si levò l'urlo "Viva San Marco!". Era da Lepanto che le ciurme aspettavano. Da trecento anni che i marinai dalmati e istriani - nucleo forte degli equipaggi anche sotto l'Austria - non salutavano un trionfo contro una flotta di intrusi nel "loro" mare. Già, perché quella non fu la vittoria dell'Austria contro l'Italia, ma dell'Adriatico contro il Tirreno, contro l'anima spagnola della flotta borbonica passata ai Piemontesi, e contro l'eterno nemico, la repubblica marinara rivale, Genova.
"Qui è pieno di relitti di navi italiane", racconta l'istruttore Verbanac davanti a uno "spritz" di minerale e malvasia. "C'è il cacciatorpediniere Dezza, intatto, sconvolgente. O il Cesare Rossarol, finito su una mina durante una tempesta poco oltre Capo Promontore, dodici giorni dopo la fine della guerra. Affondamenti drammatici. Abbiamo proposto al consolato italiano di fare una commemorazione, ma non abbiamo avuto risposta. Sui relitti austroungarici si gettano ogni anno corone di fiori. Solo l'Italia non fa niente". L'Italia non capisce il mare, ne ha perso la memoria. Lo usa soltanto. Figurarsi l'Adriatico. L'Austria, invece, volle disperatamente rilanciare Venezia. Quando la ereditò da Napoleone nel 1815, mise il Leone di San Marco sulle sue navi accanto alla bandiera con l'aquila a due teste, e investì fior di quattrini nello storico arsenale. Ma era troppo inflessibile, troppo verticistica e disciplinata per le vecchie, sonnolente corporazioni dei mestieri. Così, quando nel 1848 queste ultime, irritate, ammazzarono il capocantiere e spinsero la città intera alla rivolta, Vienna, si sentì tradita, mollò Venezia e puntò su Trieste e Pola. Nella prima mise marina mercantile e cantieri. Nella seconda la marina da guerra. Solo gli equipaggi restarono gli stessi. I fedeli "schiavoni", che in mare parlavano veneto, ma non si erano rammolliti come la borghesia serenissima. Escono le stelle, al largo passano vele dirette alle isole. Sentiamo che Pola è una soglia. E l'avventura comincia.
Il Gautsch era diretto a Trieste, e l'area minata era bene indicata sul piano di navigazione. Come poté accadere? A Pola la leggenda del piccolo Titanic è ancora vivissima, e circola una piccante versione dei fatti. Il comandante Winter non stava in plancia. Non ci stava semplicemente perché si era portato una bella signora in cabina. E aveva dato ordine al primo ufficiale di avvicinarsi pure di qualche miglio alla zona off limits per arrivare prima a Trieste. Fatto sta che il primo ufficiale si annoiava, piegò ancora più sottocosta, poi lasciò pure lui la barra, rifilandola al timoniere. E questi, quando vide a prora una nave militare puntare sul campo minato, la seguì, pensando non ci fosse pericolo. Non capì che quella nave era il posamine. Da poppa dell'unità fecero mille segnali al piroscafo perché facesse macchina indietro. Ma il Gautsch non vide, non sentì. E saltò in aria.
La baia di Pola sigilla un altro mistero. La Viribus Unitis, ammiraglia e vanto della flotta austriaca. La colarono a picco, a due passi dai moli, due guastatori italiani con una mina sotto la chiglia, alle ore 6.29 del 2 novembre 1918. Quando ci passiamo sopra, l'ecoscandaglio non sobbalza, del gigante è rimasta solo una lamiera nel fango. A Pola tutti ricordano quando, dopo il '45, vennero gli ingegneri di Tito a spolparla per rifornire di ferro le acciaierie socialiste. S'è salvata solo l'ancora; sta all'Arsenale di Venezia. Un trofeo con poca gloria, a rileggere gli eventi. Ormeggiamo nella baia di Bagnole, e l'istruttore sub Aldo Verbanac ci racconta il giallo di quella notte. L'ammiraglio italiano Thaon di Revel manda i sub a minare il gigante. L'Austria è ormai sconfitta, l'armistizio imminente. I guastatori piazzano la bomba, ma quando riemergono sono catturati e portati sulla nave. A bordo hanno un triplice shock. Primo, i marinai nemici, essendo dalmati, parlano italiano. Secondo, sulla nave c'è una gran festa, e i sub - "venite, amici italiani!" - sono invitati a partecipare. Ma la cosa più incredibile è che la nave non è più austriaca. Da poche ore Vienna l'ha regalata al neonato regno di Jugoslavia. I marinai sono quelli di prima, ma per loro la guerra è finita. Per questo fanno festa. Come mai l'Italia non sa del cambio di bandiera? E se lo sa, come mai ordina l'operazione? I sub italiani, spiazzati, avvisano: filate, c'è una mina qua sotto. Ma nessuno ci crede, la ciurma è troppo allegra, la notizia inverosimile. Poco prima dell'alba i nostri lanciano l'ultimo allarme, dicono che manca poco al botto e si buttano in mare. Appena allora si scatena il panico, tutto l'equipaggio salta in acqua. Solo il comandante, che poveraccio è al suo primo giorno di servizio, sceglie di restare. E morire a bordo.
Già, ma Venezia che c'entra? C'entra eccome. Pola fu la Venezia austriaca. Gli ufficiali della marina da guerra si spostavano in gondola nel porto e davano alle ciurme ordini con le parole-base in dialetto veneto. L'ammiraglio Wilhelm von Tegethoff, che era nato a Maribor - Marburg - in Slovenia ma aveva studiato marineria a Venezia, alla battaglia di Lissa del 1866 contro i Savoia, diede in veneto al timoniere Nane l'ordine di speronamento contro la corazzata Re d'Italiache aveva il timone in avaria. Urlò: "Dèghe drento, Nane, dèghe drento de prora", dateci dentro di prua, e quando la nave italiana affondò con 600 uomini a bordo, si narra che dalle murate dell'ammiraglia Erzherzog Ferdinand Max si levò l'urlo "Viva San Marco!". Era da Lepanto che le ciurme aspettavano. Da trecento anni che i marinai dalmati e istriani - nucleo forte degli equipaggi anche sotto l'Austria - non salutavano un trionfo contro una flotta di intrusi nel "loro" mare. Già, perché quella non fu la vittoria dell'Austria contro l'Italia, ma dell'Adriatico contro il Tirreno, contro l'anima spagnola della flotta borbonica passata ai Piemontesi, e contro l'eterno nemico, la repubblica marinara rivale, Genova.
"Qui è pieno di relitti di navi italiane", racconta l'istruttore Verbanac davanti a uno "spritz" di minerale e malvasia. "C'è il cacciatorpediniere Dezza, intatto, sconvolgente. O il Cesare Rossarol, finito su una mina durante una tempesta poco oltre Capo Promontore, dodici giorni dopo la fine della guerra. Affondamenti drammatici. Abbiamo proposto al consolato italiano di fare una commemorazione, ma non abbiamo avuto risposta. Sui relitti austroungarici si gettano ogni anno corone di fiori. Solo l'Italia non fa niente". L'Italia non capisce il mare, ne ha perso la memoria. Lo usa soltanto. Figurarsi l'Adriatico. L'Austria, invece, volle disperatamente rilanciare Venezia. Quando la ereditò da Napoleone nel 1815, mise il Leone di San Marco sulle sue navi accanto alla bandiera con l'aquila a due teste, e investì fior di quattrini nello storico arsenale. Ma era troppo inflessibile, troppo verticistica e disciplinata per le vecchie, sonnolente corporazioni dei mestieri. Così, quando nel 1848 queste ultime, irritate, ammazzarono il capocantiere e spinsero la città intera alla rivolta, Vienna, si sentì tradita, mollò Venezia e puntò su Trieste e Pola. Nella prima mise marina mercantile e cantieri. Nella seconda la marina da guerra. Solo gli equipaggi restarono gli stessi. I fedeli "schiavoni", che in mare parlavano veneto, ma non si erano rammolliti come la borghesia serenissima. Escono le stelle, al largo passano vele dirette alle isole. Sentiamo che Pola è una soglia. E l'avventura comincia.
Paolo Rumiz
Paolo Rumiz, triestino, è scrittore e viaggiatore. Con Feltrinelli ha pubblicato La secessione leggera (2001), Tre uomini in bicicletta (con Francesco Altan; 2002), È Oriente (2003), La leggenda dei monti …