Giulietto Chiesa: Oligarchi e guerriglieri, attacco al cuore dello stato di zar Putin
03 Settembre 2004
La micidiale successione di attacchi del terrorismo ceceno contro la Russia di Vladimir Putin induce a pensare a qualche cosa di più complesso, di più importante che un'offensiva terroristica. Molti indizi lasciano pensare che Shamil Bassaev non sia solo in questa impresa. Il cui scopo evidente, pianificato, è quello di indurre nell'opinione pubblica russa (e in quella internazionale) un'idea semplice e devastante per la figura del presidente russo: Vladimir Putin non è in grado di controllare la situazione. Due aerei abbattuti da bombe, in partenza da Mosca; un'autobomba nel centro della capitale; un assalto militare contro un obiettivo civile in una città dell'Ossetia del nord, tutt'ora in corso: vogliono dimostrare che il governo centrale russo non può parare nessun colpo ed è in balia del terrorismo.
Ma non si può fare tanto, e tutto insieme, senza alleati in Russia. Probabilmente non si può fare tutto questo, e tutto insieme, senza potenti alleati esterni, che finanziano, armano, progettano.
Del resto - a chi dubitasse di questa inerpretazione - basterebbe ricordare la data d'inizio della seconda guerra cecena. In quell'agosto 1999 Shamil Bassaev (ex agente dei servizi segreti militari russi), incoraggiato e finanziato dai banchieri di Mosca, capitanati da colui che era allora il più in auge degli oligarchi, Boris Berezovskij, sferrò un'offensiva "inspiegabile" contro il Daghestan russo. Era stata ideata a Mosca per portare al potere Vladimir Putin al posto di un Boris Eltsin imbolsito dall'alcol, ormai impresentabile, indecente.
Quei legami non sono mai stati recisi e ci sono buone ragioni per ritenere che siano stati ripristinati.
Ma perché ora?
La risposta è evidente a chi legga con attenzione le mosse del presidente-zar. Vladimir Putin ha da tempo intrapreso una marcia in una direzione che gli oligarchi non gradiscono. Ma gli oligarchi non hanno strumenti per fermarlo. E temono per la loro sorte. L'esempio di Mikhail Khodorkovskij, il miliardario "padrone" della Yukos, in galera da oltre un anno, è lì ad ammonire chiunque volesse tentare una scalata al potere in Russia. Altri due oligarchi di grande nome, Boris Berezovskij appunto e Vladimir Gusinskij (ex padroni dei due maggiori canali televisivi) sono in esilio con mandati di cattura pendenti sulle loro teste.
Putin ha preso tutto. La Duma è nelle sue mani. I partiti di opposizione sono stati o cancellati o debellati, o comprati. La stampa e le televisioni sono state azzittite.
Negli ultimi due mesi il presidente russo ha piazzato altri colpi definitivi prendendo sotto il suo diretto controllo i consigli di amministrazione dei cosiddetti "monopoli naturali" dell'energia del paese. Suoi uomini sono stati messi a capo di giganti come Gasprom (Dmitrij Medvedev, capo dell'Amministrazione Presidenziale), Transneft (Evghenij Shkolov, vice di Medvedev), Rosneft (Igor Secin, aiutante di Medvedev), Transnefteprodukt (Vladislav Surkov, altro vice di Medvedev). A questi si aggiunge Aleksandr Voloshin, ex capo dell'A.P., piazzato due anni fa alla testa di RAO-EES, il colosso elettro-energetico della Russia.
A questo punto il presidente russo e i suoi diretti collaboratori controllano direttamente quasi tutti i profitti dell'energia russa, qualcosa come 7 miliardi di dollari all'anno. Non si tratta di un ritorno al socialismo, né di una virata verso il capitalismo di stato. Si tratta piuttosto di un'operazione per costruire un regime personale incontrastabile negli anni a venire. Sul quale Putin conta di costruire la "sua" Russia.
Coloro che lo hanno portato al potere non era a questo che pensavano. Erano convinti, dopo avere comprato Eltsin, di avere un potere politico a loro disposizione. Adesso che capiscono di essersi sbagliati, ne hanno paura. Ma la Russia non ha le istituzioni per lo sviluppo di quella che in Occidente si usa chiamare una "normale dialettica democratica". Inoltre il rating di Vladimir Putin rimane altissimo. Forse non proprio stratosferico come dicono i suoi sondaggisti, ma certamente assai alto: in ogni caso incomparabilmente più alto di quello di ogni eventuale - del resto non all'orizzonte - concorrente.
Mikhail Khodorkovskij aveva appena accennato una scalata e, sapendone la difficoltà, si era fatto spalleggiare dalla Exxon-Mobil e dai potenti banchieri di Wall Street che erano pronti a comprarsi un terzo della Jukos, per 25 miliardi di dollari. Putin lo ha fermato senza nemmeno usare i trucchi dello stato di diritto: l'ha fatto arrestare. E ai mentori-amici-nemici di New York ha mandato un segnale: non provateci un'altra volta, perché "gli interessi della Russia si decidono in Russia", cioè li decido io.
L'offensiva di Shamil Bassaev, o di quelli che lo guidano, è spiegabile perfettamente in questo contesto. Come disse il marchese De Coustine, due secoli fa, "bisogna andare in Russia per capire ciò che non può fare colui che può tutto". Putin ha preso tutto, ma non riesce a prendere la Cecenia. Questo è il suo tallone d'Achille. Chi vuole rovesciarlo, o anche soltanto indebolirlo, costringerlo a venire a patti, deve colpire esattamente in quel punto. Chiunque siano i burattinai, stanno giocando una partita all'ultimo sangue, anche se è sangue altrui.
Vladimir Putin ha saputo giocarli tutti, fino ad ora, ma sulla Cecenia non è riuscito mai a prendere il piatto. E i trucchi qui non servono. Inutile dire che si è parte del fronte comune contro il terrorismo internazionale, se non si è capito che in quel fronte si possono annidare alcuni degli organizzatori del terrorismo ceceno.
Ma non si può fare tanto, e tutto insieme, senza alleati in Russia. Probabilmente non si può fare tutto questo, e tutto insieme, senza potenti alleati esterni, che finanziano, armano, progettano.
Del resto - a chi dubitasse di questa inerpretazione - basterebbe ricordare la data d'inizio della seconda guerra cecena. In quell'agosto 1999 Shamil Bassaev (ex agente dei servizi segreti militari russi), incoraggiato e finanziato dai banchieri di Mosca, capitanati da colui che era allora il più in auge degli oligarchi, Boris Berezovskij, sferrò un'offensiva "inspiegabile" contro il Daghestan russo. Era stata ideata a Mosca per portare al potere Vladimir Putin al posto di un Boris Eltsin imbolsito dall'alcol, ormai impresentabile, indecente.
Quei legami non sono mai stati recisi e ci sono buone ragioni per ritenere che siano stati ripristinati.
Ma perché ora?
La risposta è evidente a chi legga con attenzione le mosse del presidente-zar. Vladimir Putin ha da tempo intrapreso una marcia in una direzione che gli oligarchi non gradiscono. Ma gli oligarchi non hanno strumenti per fermarlo. E temono per la loro sorte. L'esempio di Mikhail Khodorkovskij, il miliardario "padrone" della Yukos, in galera da oltre un anno, è lì ad ammonire chiunque volesse tentare una scalata al potere in Russia. Altri due oligarchi di grande nome, Boris Berezovskij appunto e Vladimir Gusinskij (ex padroni dei due maggiori canali televisivi) sono in esilio con mandati di cattura pendenti sulle loro teste.
Putin ha preso tutto. La Duma è nelle sue mani. I partiti di opposizione sono stati o cancellati o debellati, o comprati. La stampa e le televisioni sono state azzittite.
Negli ultimi due mesi il presidente russo ha piazzato altri colpi definitivi prendendo sotto il suo diretto controllo i consigli di amministrazione dei cosiddetti "monopoli naturali" dell'energia del paese. Suoi uomini sono stati messi a capo di giganti come Gasprom (Dmitrij Medvedev, capo dell'Amministrazione Presidenziale), Transneft (Evghenij Shkolov, vice di Medvedev), Rosneft (Igor Secin, aiutante di Medvedev), Transnefteprodukt (Vladislav Surkov, altro vice di Medvedev). A questi si aggiunge Aleksandr Voloshin, ex capo dell'A.P., piazzato due anni fa alla testa di RAO-EES, il colosso elettro-energetico della Russia.
A questo punto il presidente russo e i suoi diretti collaboratori controllano direttamente quasi tutti i profitti dell'energia russa, qualcosa come 7 miliardi di dollari all'anno. Non si tratta di un ritorno al socialismo, né di una virata verso il capitalismo di stato. Si tratta piuttosto di un'operazione per costruire un regime personale incontrastabile negli anni a venire. Sul quale Putin conta di costruire la "sua" Russia.
Coloro che lo hanno portato al potere non era a questo che pensavano. Erano convinti, dopo avere comprato Eltsin, di avere un potere politico a loro disposizione. Adesso che capiscono di essersi sbagliati, ne hanno paura. Ma la Russia non ha le istituzioni per lo sviluppo di quella che in Occidente si usa chiamare una "normale dialettica democratica". Inoltre il rating di Vladimir Putin rimane altissimo. Forse non proprio stratosferico come dicono i suoi sondaggisti, ma certamente assai alto: in ogni caso incomparabilmente più alto di quello di ogni eventuale - del resto non all'orizzonte - concorrente.
Mikhail Khodorkovskij aveva appena accennato una scalata e, sapendone la difficoltà, si era fatto spalleggiare dalla Exxon-Mobil e dai potenti banchieri di Wall Street che erano pronti a comprarsi un terzo della Jukos, per 25 miliardi di dollari. Putin lo ha fermato senza nemmeno usare i trucchi dello stato di diritto: l'ha fatto arrestare. E ai mentori-amici-nemici di New York ha mandato un segnale: non provateci un'altra volta, perché "gli interessi della Russia si decidono in Russia", cioè li decido io.
L'offensiva di Shamil Bassaev, o di quelli che lo guidano, è spiegabile perfettamente in questo contesto. Come disse il marchese De Coustine, due secoli fa, "bisogna andare in Russia per capire ciò che non può fare colui che può tutto". Putin ha preso tutto, ma non riesce a prendere la Cecenia. Questo è il suo tallone d'Achille. Chi vuole rovesciarlo, o anche soltanto indebolirlo, costringerlo a venire a patti, deve colpire esattamente in quel punto. Chiunque siano i burattinai, stanno giocando una partita all'ultimo sangue, anche se è sangue altrui.
Vladimir Putin ha saputo giocarli tutti, fino ad ora, ma sulla Cecenia non è riuscito mai a prendere il piatto. E i trucchi qui non servono. Inutile dire che si è parte del fronte comune contro il terrorismo internazionale, se non si è capito che in quel fronte si possono annidare alcuni degli organizzatori del terrorismo ceceno.
Giulietto Chiesa
Giulietto Chiesa (1940) è giornalista e politico. Corrispondente per “La Stampa” da Mosca per molti anni, ha sempre unito nei suoi reportage una forte tensione civile e un rigoroso scrupolo …