Giovanni Mariotti: Dal pennino alla biro. Quella sciatteria che una volta era solo un vezzo

07 Settembre 2004
Le persone umili, che non erano andate oltre le scuole elementari, avevano della scrittura un grande rispetto. Per questo scrivevano in modo così chiaro. Si conformavano ai dettami di un'arte - la calligrafia - che presto nelle scuole non si sarebbe insegnata più. La loro mano ricordava che la pressione sul pennino doveva essere più leggera quando il segno era ascendente e più marcata quando il segno era discendente. Nei mercatini delle pulci si trovano ancora vecchie cartoline scritte con una cura ammirevole, anche se da persone di cultura modesta, com'è attestato da qualche veniale errore di ortografia. I colti, invece, scrivevano in maniera sciatta o incomprensibile. Misteriosi erano i geroglifici delle ricette, che solo gli Champollion delle farmacie riuscivano a decifrare. È un'abitudine che è rimasta. Vorrei che un medico mi spiegasse le ragioni di questa comunicazione cifrata, che continua a svolgersi sopra la testa di noi pazienti. Ma quello dei medici resta un caso a sé. Oggi colti e incolti, umili e potenti indossiamo gli stessi abiti e, quando prendiamo una penna in mano, scriviamo tutti nella stessa maniera, cioè male. Attraverso alcune tappe intermedie - quella delle macchine da scrivere con i loro tasti chiacchierini, quella delle penne a sfera - siamo passati dalla civiltà dei pennini, dei calamai e delle carte assorbenti a quella del computer. Non so se sia un bene o un male. C'è dopotutto qualcosa di poetico in queste lettere che si accendono silenziosamente come stelline su uno schermo lattiginoso. Ma poetica è anche, su qualche vecchia cartolina che conservo, la bella scrittura di mio nonno, di cui era ingenuamente orgoglioso.

Giovanni Mariotti

Giovanni Mariotti, versiliese collabora al Corriere della Sera.