Massimo Mucchetti: Geox, Tod's e Armani e quelle tasse con la griffe

13 Settembre 2004
Secondo il sociologo Giampaolo Fabris, i marchi rappresentano il bene principale di un'azienda che si rivolge ai consumatori. E però, secondo le regole della ragioneria, i marchi non hanno in partenza un valore nel bilancio. Hanno invece un loro posto nell'attivo patrimoniale quando vengano comprati o rappresentino una parte del cosiddetto avviamento pagato su un'acquisizione. Ma c'è una terza possibilità: che i marchi talvolta si materializzino quando serva a far risparmiare imposte alla società o ai suoi proprietari. L'ultimo caso del genere è quello della Geox, brillante gruppo trevigiano delle calzature che si prepara alla Borsa. Benché il quartier generale dell'azienda sia a Crocetta del Montello, il marchio e i brevetti della suola che respira erano di proprietà di una società olandese, la ‟Nottington Holding”, ora ‟Geox Holding bv”. L'azienda vera, la ‟Geox Spa”, versava royalties pari a poco meno del 5% sul fatturato: 4,6 milioni nel 2000; 7 l'anno dopo. Un costo fiscalmente deducibile. Dal 31 dicembre 2001 questi beni immateriali risultano conferiti dall'olandese all'italiana per 223 milioni pagati attraverso l'emissione di nuove azioni Geox a favore della consorella estera. Senza movimenti di denaro, si è creato un bene che verrà ammortizzato in 10 anni. Si tratta di un costo sostitutivo della royalty e pienamente deducibile, e in misura ben superiore, almeno fino a quando le royalties non avessero raggiunto i 23 milioni l'anno; un costo sufficiente a mandare in rosso la società operativa la quale, pertanto, risparmia l'Irpeg e riduce anche l'Irap. Poiché sia l'olandese che l'italiana fanno capo alla stessa proprietà, nel bilancio consolidato ammortamenti e perdite si elidono, ma il risparmio fiscale resta. E così, nel 2003, il gruppo Geox può sfoggiare un utile netto di 29 milioni su 254 fatturati stanziando solo 3 milioni di imposte. Tanto per restare nel settore, anche il gruppo ‟Tod's” ha fatto operazioni sui marchi vantaggiose dal punto di vista fiscale. Prima del collocamento in Borsa, la ‟Tod's” ha comprato da una società lussemburghese della famiglia Della Valle i marchi ‟Hogan” e ‟Fay” per 155 milioni di euro. Per farlo la ‟Tod's” si è indebitata, salvo rimborsare poi le banche grazie all'aumento di capitale connesso alla quotazione in Borsa. In questo caso i vantaggi fiscali sono stati tre: la lussemburghese ha venduto i marchi dando poco o nulla all'Erario del Granducato; la ‟Tod's” ha avuto un beneficio immediato grazie alla legge Visco, che premiava aumenti di capitale e investimenti, e un altro beneficio di 50-60 milioni nell' arco di 20 anni grazie all' ammortamento dei due marchi. Altri, invece, non fanno nulla. Giorgio Armani per esempio. I marchi del celebre stilista milanese sono registrati nel mondo da una società svizzera del gruppo, la ‟G.A. Modafine”, e in Italia dalla capogruppo. Dal sistema Armani, dunque, non escono royalties. Né si è ritenuto di rivalutare i marchi, perché la ‟G.A. Modafine” avrebbe dovuto segnare una enorme plusvalenza teorica pagando al fisco elvetico un'imposta reale consistente. La conseguenza è che Armani sopporta imposte in ragione del 35% dell'utile lordo. Avesse seguito il modello ‟Geox”, riuscendo a rivalutare il marchio una volta e mezza il fatturato in sostanziale esenzione d'imposta, avrebbe all'attivo patrimoniale un bene immateriale pari a 1,8 miliardi di euro che, ammortizzato in 10 anni, avrebbe azzerato o quasi l'imposizione fiscale per l'intero periodo. Questi tre casi, esemplari di scelte diffuse, dicono che lo stesso bene, il marchio, è trattato in modi assai diversi nei bilanci. Tutti sono in regola con la legge. Ma il legislatore e la sua amministrazione sono sicuri che vada bene così?
Con la consulenza tecnica di Miraquota.

Massimo Mucchetti

Massimo Mucchetti (Brescia, 1953) è oggi senatore della Repubblica. Ha lavorato al “Corriere della Sera” dal 2004 al 2013. In precedenza, era stato a “l’Espresso” per diciassette anni. E prima …