Paolo Rumiz: La rotta per Lepanto. Sulla costa delle Aquile
16 Settembre 2004
Era impossibile dormire. In cielo, rombo di bombardieri Usa verso la Serbia. In mare, rombo di barchini pieni di albanesi in partenza per l'Italia. In terra, rombo di camion dell'Armata Jugoslava. Non c'era pace a Bar, durante la guerra in Kosovo. Oggi è cambiato tutto, l'unico rombo è quello delle discoteche. Il resto è pace assoluta. I caffè pieni di uomini a far niente. Le strade piene di donne dal passo elastico. È la strana estate di Bar, dirimpettaia montenegrina di Bari. Propaggine a mare della vecchia Antivari; città magnifica, tutta selciati, chiese e qualche minareto verso le montagne. "Non chiedetemi come, ma qui la moneta ufficiale è l'Euro", ci dicono ridendo alla capitaneria. Già, qui si paga in Euro, e non si capisce come faccia a funzionare, perché con la Serbia non c'è frontiera e in Serbia esiste ancora il dinaro. Diavolerie balcaniche. Ma dopo la Croazia, senti anche che tutto diventa più fluido e accomodante. Tre di noi non hanno il passaporto, ma non fa niente. I documenti dei bambini valgono solo per l'Ue, ma fa niente. Inizia un "Easy going". Tutto è Nema problema. Come in Grecia, qui non si litiga, niente guerre per il posto-barca. Senti che cambia il mondo, anche geograficamente. Finiscono i grandi fari monumentali dell'Austria-Ungheria, finisce la costa arida, finisce anche la bora. Qui è l'ultimo posto dove la puoi sentire, con i suoi strappi e la temperatura che scende. Chissà, forse è il vento che fa il carattere della gente.
Slobodan dorme nella sua barca fai-da-te, con una carta d'Europa appiccicata sopra il letto. Prima di spegnere la luce se la guarda e decide dove andare con la fantasia. Dice: "Non ho un quattrino, ma sono l'uomo più ricco del mondo, perché sono pieno di sogni". Belgradese, barba bianca omerica, sessant'anni o giù di lì, è il monarca assoluto dello scafo che s'è costruito con le sue mani. Lo invitiamo per un un birrino a poppa, attorno alle lampade a petrolio e ci narra la sua storia. Un perfetto film di Kusturica. Nel '90 a Spalato, alla vigilia del ribaltone jugoslavo, succede che svendono scialuppe di salvataggio. Lui ne carica una sul treno e la porta a Belgrado. Ci mette un motore, pure in svendita. Sogna le Cicladi, decide di andarci via Danubio. Gli dicono: sei matto. Lui se ne fotte. Pianta l'albero, installa la vela e parte. Passa le Porte di Ferro, il Mar Nero, il Bosforo, vede Istanbul nella sera. Poi circumnaviga l'Egeo, e già che c'è risale lo Jonio, poi l'Adriatico fino a Vieste, e traversa su Bar. Da allora non lo schiodi dal suo porticciolo.
Apro sul molo la carta del viaggio per Lepanto, lunga sei metri e zeppa di annotazioni. Slobo ci si immerge, improvvisamente silenzioso. Poi dice "aspetta" e corre nella sua barca a prenderne una tre volte più lunga. È la mappa a fisarmonica degli ultimi trecento chilometri del Danubio, un fantastico documento del 1953, in russo e francese, lungo come l'arazzo di Bayeux, con i fogli astutamente piegati in modo da non falsare i cambi di direzione del fiume. Siamo in preda a un'euforia cartografica infantile, la birra fa il resto. Escono le stelle, andiamo a vedere lo yacht del re Nicola, ammazzato a Parigi negli anni Trenta. Lo lasciano a marcire sul molo, ed è strano che nessun danaroso monarchico lo compri. In fondo, da qui salpò anche la bella Elena di Montenegro, per sposare un re d'Italia. Al largo passa un transatlantico illuminato, Slobo racconta il Danubio, i meandri del dio-serpente, le secche che le chiatte forzano scavando la sabbia con le eliche. Penso che la sua barca, costruita con i rottami delle repubbliche che furono, è l'unica cosa che resta della Jugoslavia.
Il giorno dopo la Montagna Nera gronda, il mare bolle come un minestrone, impossibile partire. Facciamo il punto sui movimenti delle due flotte prima di Lepanto. Ormai il viaggio è un conto alla rovescia. Manca pochissimo alla battaglia. La flotta ottomana di kapudàn Alì Pascià morde il freno, saccheggia, brucia, devasta isole e coste tra Spalato e il Peloponneso, e un'armata immensa stringe Cipro in una morsa. La Lega Santa creata per "disfare et ruinare el Turco" invece esita, perde tempo in cerimonie e discussioni. In luglio e agosto la flotta veneziana muove nel Golfo tra Corfù, Zante, Cefalonia, fino a Cerigo, in un vagare senza costrutto se non quello imposto da "spalmar le galee, far acqua e legna, pigliar le vettovaglie, riempir tutto quello ch'era voto". Caldo, sete, indisciplina. È solo ai primi di settembre che la coalizione si riunisce, a Messina, mentre piovono brutte notizie, da Famagosta a Cipro. Ma ancora si perde tempo; Madrid teme di svenarsi in una guerra utile solo a Venezia e frena i bollori dell'ammiraglio supremo, Don Giovanni d'Austria. Intanto la stagione buona si avvia alla fine, la flotta turca pensa già a un posto dove svernare. Lepanto.
Partenza per l'Albania, la terra incognita. Non abbiamo carte nautiche, le uniche buone sono ancora quelle austroungariche, introvabili. Nei portolani c'è poco o niente; tanto, non ci va nessuno. Dopo Bar, tutti tagliano su Brindisi per poi tornare su Corfù. Colpa dei briganti, degli scafisti, di troppi anni di pessima fama. Mafia, comunismo, e il Turco cattivo, che qui aveva la sua roccaforte. Anche la nostra barca non aveva in programma di entrare nel Paese delle aquile, ma tentiamo la sorte. Anche se l'equipaggio di Moya non ha i passaporti giusti. Il mare subito si desertifica. Già nell'ultimo pezzo di Montenegro inizia una "no man's land" di contrabbandieri, un senso di presagio nell'aria che coincide con l'avvicinamento alla battaglia. A babordo, le mura massicce di Dulcigno, dove venivano venduti gli schiavi rapiti in Puglia e in Calabria, svelano che secoli fa i disperati traversavano Otranto al contrario. Dulcigno era anche base di uno dei capi più abili della flotta turca a Lepanto, Haluj Alì, detto dai veneziani "Occhiali". Il quale nientemeno era che un frate francescano - per di più calabrese - passato all'Islam. Gran storia, la sua. Preso dai pirati a Tropea, fu messo al remo in ceppi. Si convertì e venne di conseguenza "sferrato", liberato dai ferri. Da allora, scrissero di lui in terra cristiana, "una novella esistenza incominciò per Alì, il rinnegato". Nel 1565, quando l'‟invincibile armada” turca - respinta da Malta - dovette arretrare per la prima volta, fu fatto capo della flotta da corsa. Divenne il miglior comandante del Sultano e a Lepanto fu l'unico a riportare a casa le sue navi. Morì pascià di Algeri, "carico di anni".
Cielo abbacinante, mare più deserto che mai. Non è solo assenza di turisti. È che gli albanesi non vanno in mare. Sono pastori, e per i pastori il mare è paura, fatica e dolore. La direzione maestra cambia, dopo la foce del Drin la costa piega a Sud rispetto al Sudest della Dalmazia, Durazzo si avvicina, ma il vuoto resta identico. La nostra omerica vela rossa nel nulla è così straordinaria che una motovedetta della Finanza italiana, di stanza in Albania per il pattugliamento anti-immigrati, ci punta sollevando grandi ondate, ci fa un lungo giro attorno, poi si fa ragguagliare alla voce sulle nostre intenzioni. "Seaport authority Durres, Seaport authority Durres, here sailing yacht Moya", il Comandante cerca via radio la Capitaneria di Durazzo, dall'altra parte rispondono in albanese. "Understand nothing". Arriviamo in porto, ma il preavviso non serve. Le banchine sono zeppe di navi da carico, non c'è un buco per le barche a vela. Semplicemente non sono previste. La polizia ci guarda perplessa, siamo schierati a bordo con bimbi, pappette e pannolini sotto il Tricolore, assolutamente indefinibili. Qui mamme e bambini in mare li hanno visti solo sui barchini per l'Italia.
Slobodan dorme nella sua barca fai-da-te, con una carta d'Europa appiccicata sopra il letto. Prima di spegnere la luce se la guarda e decide dove andare con la fantasia. Dice: "Non ho un quattrino, ma sono l'uomo più ricco del mondo, perché sono pieno di sogni". Belgradese, barba bianca omerica, sessant'anni o giù di lì, è il monarca assoluto dello scafo che s'è costruito con le sue mani. Lo invitiamo per un un birrino a poppa, attorno alle lampade a petrolio e ci narra la sua storia. Un perfetto film di Kusturica. Nel '90 a Spalato, alla vigilia del ribaltone jugoslavo, succede che svendono scialuppe di salvataggio. Lui ne carica una sul treno e la porta a Belgrado. Ci mette un motore, pure in svendita. Sogna le Cicladi, decide di andarci via Danubio. Gli dicono: sei matto. Lui se ne fotte. Pianta l'albero, installa la vela e parte. Passa le Porte di Ferro, il Mar Nero, il Bosforo, vede Istanbul nella sera. Poi circumnaviga l'Egeo, e già che c'è risale lo Jonio, poi l'Adriatico fino a Vieste, e traversa su Bar. Da allora non lo schiodi dal suo porticciolo.
Apro sul molo la carta del viaggio per Lepanto, lunga sei metri e zeppa di annotazioni. Slobo ci si immerge, improvvisamente silenzioso. Poi dice "aspetta" e corre nella sua barca a prenderne una tre volte più lunga. È la mappa a fisarmonica degli ultimi trecento chilometri del Danubio, un fantastico documento del 1953, in russo e francese, lungo come l'arazzo di Bayeux, con i fogli astutamente piegati in modo da non falsare i cambi di direzione del fiume. Siamo in preda a un'euforia cartografica infantile, la birra fa il resto. Escono le stelle, andiamo a vedere lo yacht del re Nicola, ammazzato a Parigi negli anni Trenta. Lo lasciano a marcire sul molo, ed è strano che nessun danaroso monarchico lo compri. In fondo, da qui salpò anche la bella Elena di Montenegro, per sposare un re d'Italia. Al largo passa un transatlantico illuminato, Slobo racconta il Danubio, i meandri del dio-serpente, le secche che le chiatte forzano scavando la sabbia con le eliche. Penso che la sua barca, costruita con i rottami delle repubbliche che furono, è l'unica cosa che resta della Jugoslavia.
Il giorno dopo la Montagna Nera gronda, il mare bolle come un minestrone, impossibile partire. Facciamo il punto sui movimenti delle due flotte prima di Lepanto. Ormai il viaggio è un conto alla rovescia. Manca pochissimo alla battaglia. La flotta ottomana di kapudàn Alì Pascià morde il freno, saccheggia, brucia, devasta isole e coste tra Spalato e il Peloponneso, e un'armata immensa stringe Cipro in una morsa. La Lega Santa creata per "disfare et ruinare el Turco" invece esita, perde tempo in cerimonie e discussioni. In luglio e agosto la flotta veneziana muove nel Golfo tra Corfù, Zante, Cefalonia, fino a Cerigo, in un vagare senza costrutto se non quello imposto da "spalmar le galee, far acqua e legna, pigliar le vettovaglie, riempir tutto quello ch'era voto". Caldo, sete, indisciplina. È solo ai primi di settembre che la coalizione si riunisce, a Messina, mentre piovono brutte notizie, da Famagosta a Cipro. Ma ancora si perde tempo; Madrid teme di svenarsi in una guerra utile solo a Venezia e frena i bollori dell'ammiraglio supremo, Don Giovanni d'Austria. Intanto la stagione buona si avvia alla fine, la flotta turca pensa già a un posto dove svernare. Lepanto.
Partenza per l'Albania, la terra incognita. Non abbiamo carte nautiche, le uniche buone sono ancora quelle austroungariche, introvabili. Nei portolani c'è poco o niente; tanto, non ci va nessuno. Dopo Bar, tutti tagliano su Brindisi per poi tornare su Corfù. Colpa dei briganti, degli scafisti, di troppi anni di pessima fama. Mafia, comunismo, e il Turco cattivo, che qui aveva la sua roccaforte. Anche la nostra barca non aveva in programma di entrare nel Paese delle aquile, ma tentiamo la sorte. Anche se l'equipaggio di Moya non ha i passaporti giusti. Il mare subito si desertifica. Già nell'ultimo pezzo di Montenegro inizia una "no man's land" di contrabbandieri, un senso di presagio nell'aria che coincide con l'avvicinamento alla battaglia. A babordo, le mura massicce di Dulcigno, dove venivano venduti gli schiavi rapiti in Puglia e in Calabria, svelano che secoli fa i disperati traversavano Otranto al contrario. Dulcigno era anche base di uno dei capi più abili della flotta turca a Lepanto, Haluj Alì, detto dai veneziani "Occhiali". Il quale nientemeno era che un frate francescano - per di più calabrese - passato all'Islam. Gran storia, la sua. Preso dai pirati a Tropea, fu messo al remo in ceppi. Si convertì e venne di conseguenza "sferrato", liberato dai ferri. Da allora, scrissero di lui in terra cristiana, "una novella esistenza incominciò per Alì, il rinnegato". Nel 1565, quando l'‟invincibile armada” turca - respinta da Malta - dovette arretrare per la prima volta, fu fatto capo della flotta da corsa. Divenne il miglior comandante del Sultano e a Lepanto fu l'unico a riportare a casa le sue navi. Morì pascià di Algeri, "carico di anni".
Cielo abbacinante, mare più deserto che mai. Non è solo assenza di turisti. È che gli albanesi non vanno in mare. Sono pastori, e per i pastori il mare è paura, fatica e dolore. La direzione maestra cambia, dopo la foce del Drin la costa piega a Sud rispetto al Sudest della Dalmazia, Durazzo si avvicina, ma il vuoto resta identico. La nostra omerica vela rossa nel nulla è così straordinaria che una motovedetta della Finanza italiana, di stanza in Albania per il pattugliamento anti-immigrati, ci punta sollevando grandi ondate, ci fa un lungo giro attorno, poi si fa ragguagliare alla voce sulle nostre intenzioni. "Seaport authority Durres, Seaport authority Durres, here sailing yacht Moya", il Comandante cerca via radio la Capitaneria di Durazzo, dall'altra parte rispondono in albanese. "Understand nothing". Arriviamo in porto, ma il preavviso non serve. Le banchine sono zeppe di navi da carico, non c'è un buco per le barche a vela. Semplicemente non sono previste. La polizia ci guarda perplessa, siamo schierati a bordo con bimbi, pappette e pannolini sotto il Tricolore, assolutamente indefinibili. Qui mamme e bambini in mare li hanno visti solo sui barchini per l'Italia.
Paolo Rumiz
Paolo Rumiz, triestino, è scrittore e viaggiatore. Con Feltrinelli ha pubblicato La secessione leggera (2001), Tre uomini in bicicletta (con Francesco Altan; 2002), È Oriente (2003), La leggenda dei monti …