Furio Colombo: Se vince Kerry, se vince Bush

18 Ottobre 2004
Non c’è alcuna differenza: Bush e Kerry sono la stessa cosa. Non ci sarà neppure modo di accorgersi dell’esito delle elezioni americane. Non cambia niente. Questo messaggio viene distribuito con un certo affanno da tutta la destra italiana che ci ha indicato George W. Bush e la sua guerra preventiva come l’incarnazione di tutto ciò che è America, da Walt Whitman a Roosevelt, da Kennedy a Clinton. È naturale che cerchino di prepararsi a una eventuale uscita di scena del loro eroe (uno che dice di parlare direttamente con Dio) anticipando la persuasione che Kerry è uno della stessa pasta: cannoni e bombe, diceva Brecht.
Ma non sono solo voci di destra. Giungono e-mail, inviate da persone che si ritengono di sinistra, e che desiderano esprimere il loro disprezzo per Kerry. Lo fanno con tale impegno da considerare Bush un impedimento secondario. Lo fanno in base ad accuse ritenute così clamorose, così conosciute ed evidenti, che non perdono tempo a ripeterle. Difficile avere un nemico in comune con Bush, ma la mala informazione fa vittime da tutte le parti. C’è però un terzo scaglione di appassionati che leggono e seguono e sanno ma, anche a causa della distanza, non sanno decidere. Chiedono: davvero Kerry è meglio di Bush? Anticipo subito la risposta perché è il cuore del discorso: penso di sì, ma non ha importanza. E ciò non in base allo slogan che circola tra gli americani che si oppongono a Bush e che dicono: Anyone but Bush (chiunque ma non Bush). La ragione è che Bush, anche se non fosse un presidente modesto, aggressivo, incolto, è comunque il leader di un mondo che crede nella guerra preventiva, nella potenza come diritto, nella arbitrarietà delle decisioni americane che devono essere svincolate da ogni alleanza, da ogni legame con le organizzazioni internazionali e i trattati, perché chi ha un simile potere non deve rispondere a nessuno. Quanto a John Kerry, fosse anche un uomo più piccolo delle speranze e attese dei suoi sostenitori, rappresenta l’America che preferisce avere amici e alleati invece che nemici o sottoposti, che intende mantenere e rafforzare le organizzazioni internazionali (prima di tutto le Nazioni Unite), ratificare i trattati internazionali già accolti dagli altri paesi del mondo e non considera la potenza come un diritto, ma come una responsabilità. Prima di tutto verso il mondo disperato che riceve rovina e genera odio.
Occorre analizzare bene le parole usate in queste due descrizioni. Non dicono che Bush è cattivo e che Kerry è il cavaliere bianco che salverà l’America e dunque l’umanità. Dicono che in queste elezioni due destini dell’America si confrontano. Uno punta verso la guerra che non può finire, perché la guerra preventiva è già stata descritta dai suoi stessi sostenitori come una serie di episodi di cui non è utile né necessario vedere la fine. Il solo problema è la forza, e se vi sono discussioni nel campo di Bush è sul come accumulare più forza, non come fare più pace. L’altro punta verso la fine di questa guerra paurosa e immensamente pericolosa non per pacifismo ma per buon senso. Ma anche come condizione per ristabilire i legami col mondo, ricostruire la collaborazione con paesi amici, restituire agli alleati, meno potenti ma indispensabili per non perdere l’equilibrio, il diritto di discussione, di decisione insieme, di critica, in modo da disporre non solo e non tanto di più risorse fisiche (l’America può sostenere di non avere bisogno di nulla) ma più ricchezza morale, idee, progetti, impegni di una vasta responsabilità comune.

Avviso agli scettici.
Non c’è alcuna demonizzazione né alcuna esaltazione in queste descrizioni. Questo è il più vasto e duro scontro di civiltà all’interno della vita e della cultura americana. I cittadini degli Stati Uniti sono chiamati a scegliere - come nell’incredibile romanzo di Philip Roth Pastorale americana - fra due futuri radicalmente diversi. Nel primo rinneghi qualsiasi legame e decidi che il solo modo per difenderti è distruggere. Più distruggi e più ti difendi. Si pensi, per capire, ai continui e insensati bombardamenti su Falluja. Nel secondo vedi la grandiosità del pericolo e ti rendi conto che la strada sinora seguita è sbagliata perché chiederà sempre più potenza, sempre più distruzione e sempre più solitudine. Il futuro di Kerry non è la visione di un santo. È soltanto più realistico, più a contatto con i fatti e i rischi che circondano l’America. Ha una visione più acuta perché si accorge che quei pericoli non vengono da mondi misteriosi e alieni. È uno sguardo da incredulo verso chi vuole persuaderti che un’immensa civiltà islamica avanza dai quattro angoli del mondo con l’arma letale del terrorismo. Ha più senso pratico quando nota che la guerra non afferra il terrorismo. Il terrorismo è un male di altra natura che non ha la vasta cultura di riferimento che gli viene assegnata. È una potenza malvagia senza territorio che si somma facilmente con le resistenze e gli scontri di liberazione locali, e da essi, attraverso lo strumento della politica, non della guerra, va separata. Per capire come gli americani che dovranno votare percepiscono la sfida dei due futuri, è utile considerare alcuni fatti. Il primo: i neri d’America che - da un lato sono i soldati di Bush e dall’altro sono ciò che rimane di più vivo del militantismo di sinistra americano - sono quasi totalmente schierati con Kerry. Eppure Kerry non ha particolari legami storici con il movimento dei diritti civili. Ma il reverendo Jesse Jackson, ciò che resta dei discepoli di Martin Luther King, ha portato a Kerry il sostegno del voto nero americano e del massiccio sforzo in corso in questi giorni per portare più gente a votare.
Il secondo: diversi e separati sondaggi hanno accertato che quasi il 70 per cento degli ebrei americani intende votare per Kerry, il candidato cattolico che sostiene Israele come ogni persona responsabile e civile sosterrebbe Israele, ma non ha con il primo ministro Sharon i rapporti di intesa militare e ideologica che notoriamente intrattiene Bush.
È evidente che due comunità che hanno peso in America ma che sono profondamente diverse e a volte lontane, hanno visto la natura della scelta, la contrapposizione del futuro di Bush al futuro di Kerry. Forse in questo schierarsi c’è un giudizio nettamente positivo per la persona di Kerry. Forse c’è un giudizio drammaticamente negativo verso la persona di George Bush. Ma è certo che il confronto fra il futuro indicato dall’uno e il futuro proposto dall’altro hanno un valore più pressante e drammatico di un normale confronto elettorale, e conterà più del giudizio sulle persone.

Un nuovo scisma d’occidente
Un testo americano uscito in questi giorni anche in Italia descrive meglio di ogni opinione di parte il futuro che George Bush offre al suo Paese e al mondo. Si intitola Il diritto di fare la guerra. Sostiene che l’ostinazione europea a negare la legittimità della guerra americana sta creando "un vero e proprio scisma fra i Paesi occidentali". Ovvero: non si può negare il diritto di fare la guerra alla più grande potenza del mondo. Robert Kagan, con la risolutezza tipica dei neo-conservatori va dritto al punto della controversia che taglia i tendini della grande alleanza storica fra Europa e America: gli Usa hanno diritto di fare la guerra perché hanno la potenza per farla, e non saranno né le mille discussioni diplomatiche né le Nazioni Unite a impedire che la guerra si faccia. È naturale che il diritto di fare la guerra non preveda alleati ma solo subordinati. Sono coloro che si sottomettono a quel diritto, offrono truppe e accettano ordini.
Nel terzo dibattito presidenziale americano alla Arizona State University, George Bush ha ripetuto la frase-codice che aveva inserito anche negli altri due dibattiti, un messaggio destinato ai veri credenti: "Non accetterò mai di farmi dire cosa devo fare dai governi di altri Paesi". La frase è roboante ed esagerata ma il senso è chiaro: niente alleati, solo dipendenti. Ed ecco il quadro tragico dell’Iraq. Le truppe dipendenti si sfilano a una a una (prima la Spagna, adesso la Polonia, con l’annuncio esasperato "non resteremo un’ora di più"). È impossibile essere di aiuto agli iracheni, impossibile il volontariato e la Croce Rossa, impossibile ogni intervento delle Nazioni Unite. Il diritto di fare la guerra è una retrocessione nei secoli e non può che avere conseguenze tragiche.
In quello stesso dibattito John Kerry ha mandato il suo messaggio opposto ai credenti democratici. Dal punto di vista di un comandante in capo (tale è il presidente degli Stati Uniti) l’opposto del diritto di fare guerra non è il pacifismo. È l’affermare che la guerra è l’estrema risorsa che viene dopo la politica.
Kerry vede la solitudine, il monologo, il rischio mortale del grande gigante isolato, nel futuro di Bush. Perciò mostra agli americani un futuro alternativo in cui amici e alleati portano idee, giudizio e senso critico. È un mondo normale, lui dice. E fa notare una cosa che impressiona, che ha detto il 13 ottobre in Arizona: Bush è il solo presidente, in 70 anni, a dichiarare la guerra preventiva, a puntare la nave americana verso il vuoto della storia.
Il confronto dunque è grande e aspro. Ma non fra lo stile e il piglio e il carisma di due uomini molto diversi. Bush, per esempio, non ha alcun carisma neppure dopo quattro anni presidenziali. Kerry non è ai primi posti fra i grandi leader carismatici del suo Paese. Il confronto è fra il futuro di Bush e il futuro di Kerry e per questo le elezioni del 2 novembre sono così drammaticamente importanti. Raramente si può sapere in anticipo ciò che accadrà, a un Paese e a ciascuno di noi. La mattina del 3 novembre, dall’esito delle elezioni americane, qualcosa ci sarà rivelato.

Furio Colombo

Furio Colombo (19319, giornalista e autore di molti libri sulla vita americana, ha insegnato alla Columbia University, fino alla sua elezione in Parlamento nell’aprile del 1996. Oltre che negli Stati …