Gabriele Romagnoli: Arafat. Quella bara tra i soldati

12 Novembre 2004
Dalla polvere del Cairo era venuto e nella polvere del Cairo è tornato. Alle 23 di ieri sera quel che resta di Arafat è atterrato nell´aeroporto della capitale egiziana davanti al suo ultimo tappeto rosso. In una città militarizzata non c´era ad attenderlo la gente, tenuta lontano da sbarramenti e divieti, ma "soltanto" una delegazione di autorità e un picchetto di militari. L´hanno accolto come il capo di un esercito, non di un popolo. La prima ad apparire sulla scaletta è stata la moglie Suha, in lacrime, ricevuta nell´abbraccio di Suzanne Mubarak, moglie del raìs egiziano. Per la bara era pronto un manipolo di soldati, che ha marciato davanti a una schiera di ministri. Nella hall, un solo uomo con l´immagine di Arafat sulla sciarpa si è commosso e ha coperto il volto con quello del suo idolo.
Rapidamente il corteo è scomparso in un palazzo di marmi e cristalli. La bara è stata deposta al centro di una sala e Arafat e il Cairo sono stati condannati a un´ultima notte insieme. A questa città ha legato alcuni dei momenti più significativi della sua esistenza: simboliche premonizioni, marchianti umiliazioni, buffonesche e ferali apparizioni e, non ultimo, un gesto a futura memoria che potrebbe essergli utile quando i suoi resti scenderanno non a terra, ma infiniti metri più sotto. Arafat & il Cairo: questa è la storia.
Il posto sbagliato. Avrebbe voluto morire a Gerusalemme, avrebbe dovuto nascere a Gerusalemme. Suo padre era, là, un commerciante di successo. Si trasferì in Egitto nel ´27 e qui, il 4 agosto del ´29, nacque Abdel-Raouf poi conosciuto come Yasser. A determinare la migrazione fu, ironicamente, la pretesa ereditaria su un pezzo di terra. Va da sé che anche questa contesa finì, dopo decenni di sofferenze e sacrifici, in una sconfitta. Ne fu risparmiata la madre di Arafat, morta nel ´33. Il piccolo orfano fu rimandato allora Gerusalemme, ma la città dei sogni lo rispedì al mittente quattro anni più tardi: il padre si era risposato. Iscritto a scuola, il ragazzino dimostrò poca propensione allo studio e molta al comando. La sorella Inam ricorda che faceva marciare in parata i compagni, costringendoli a mettersi un coperchio in testa, fustigando chi non serrava le file. Nonostante quest´unica vocazione, decise di iscriversi all´università: in Texas. Avesse dato seguito alla sua domanda si sarebbe laureato nella terra dei Bush e non ne avremmo mai sentito parlare. Lo soggiogò, invece, la Fratellanza Musulmana e il fervore rivoluzionario che covava al Cairo.
Si iscrisse qui a Ingegneria, che lo interessava quanto la nebbia. Ripeté tre anni, dedicandosi, invece, alla politica. Si spacciò per egiziano pur di essere eletto rappresentante di facoltà. Cavalcò la rivolta anti-britannica all´inizio degli Anni Cinquanta, danzò al fuoco dei 750 edifici bruciati nel Sabato Nero (26 gennaio ´52), assistette speranzoso poi perplesso all´avvento di Nasser. Quello predicava il panarabismo, Arafat arringava la Lega studentesca durante i picnic sul Nilo recitando le stesse 4 righe di una poesia sulla Palestina. E, invariabilmente, commuovendosi. Fu tra quelli che andarono ai comizi del raìs con la pistola. Finì schedato. Finì abbandonato dai compagni che lo ritenevano, già allora, un leader dispotico e inaffidabile. Stava davvero per finire: laureato, gli avevano trovato un lavoro in un´impresa edile nel quartiere di Kubra, la sorella Inam gli preparava le nozze con una cugina del marito. A trent´anni avrebbe potuto sedersi in salotto a mugugnare guardando la storia passare. Invece raccolse i suoi stracci e lasciò il Cairo per il Kuwait. Disse: "Voglio azione, soldi e qui, francamente non è aria". Avrebbe trovato quel che cercava. Cairo l´avrebbe aspettato, serena come una profezia.
Matti da morire. Era un altro nero settembre, quello del 1970. All´epoca Arafat viveva ad Amman e si era messo (a dir poco) nei guai con re Hussein, minacciandone la sovranità. La Giordania sembrava diventata troppo piccola per entrambi e si sfidarono a un duello che gli altri leader arabi cercarono di scongiurare. Indissero un vertice al Cairo, all´hotel Nile Hilton. Il problema era come portarci Arafat, ricercato in tutto il Paese. Gli (allora) amici kuwaitiani lo coprirono da capo a piedi con una tunica bianca e lo contrabbandarono nella loro delegazione. Arrivato al Cairo, Arafat si lanciò in un monologo incendiario contro Hussein, chiedendone la testa. "Impicchiamolo in piazza Tahrir" (visibile dalle finestre dell´Hilton), suggerì un ispirato Gheddafi. Nasser ascoltò, scosse la testa, concluse: "A me sembra che siamo diventati tutti matti". Poi arrivò anche re Hussein. In quell´aeroporto dove Arafat atterrerà cadavere si svolsero estenuanti trattative e infine, il 27 settembre, il raìs palestinese e Hussein si strinsero la mano e firmarono un accordo in 14 punti sulla tomba di 3mila vittime del loro dissidio. Esausto, Nasser tornò a casa, collassò e morì. L´accordo lo seguì a breve. Arafat aveva lasciato Il Cairo in una nube di rabbia, la città preparava la sua vendetta.
Alla fine del mondo. Quando, l´8 novembre del ´77, Arafat fu invitato a sedere nel Parlamento egiziano per presenziare a un importante discorso del presidente Sadat, pensò a un inedito onore. L´impressione fu raddoppiata allorché, atterrato in ritardo, scoprì che il discorso era stato differito per attenderlo. Fu deliziato dai complimenti che Sadat gli riservò in apertura. Poi arrivò la coltellata. Sadat uscì dal testo, dagli schemi, dalla storia come la voleva Arafat e disse: "Sono pronto ad andare a Ginevra, alla fine del mondo, sono pronto ad andare al Parlamento di Israele per negoziare". Arafat trasecolò ma, cortesemente, applaudì. Poi chiamò il ministro degli Esteri egiziano e gli chiese: "Perché l´ha fatto di fronte a me? Per umiliarmi? Per far credere che io approvo? Perché?". L´allora vicepresidente Mubarak lo invitò nella sua villa di Heliopolis, sulla strada dell´aeroporto e cercò di calmarlo. Non ci fu modo. Era, allora, un Mubarak suadente, ma senza fortuna. Arafat, ancora una volta, s´imbizzarrì e si lasciò Il Cairo alle spalle: "Ci vorrà un bel po´ prima ch´io torni in Egitto", disse voltandosi. Avrebbe atteso sei anni. Ma quel che accadde nell´83 rileva solo oggi. Per la storia, Il Cairo lo attendeva invece al varco, una volta di più, nel ´91.
Il patto con il diavolo. Nell´agosto del ´90 il mondo intero fu avvertito che Saddam Hussein era un pericolo: aveva invaso il Kuwait. Stava cominciando una tregenda a cui ancora assistiamo. Arafat debuttò alla sua maniera: sedendosi dalla parte sbagliata. Mentre i leader arabi prendevano le distanze dall´Iraq, lui, ospitato da giovane in Kuwait, ma ora a Bagdad, proclamò lealtà all´amico peggiore: non condannò l´invasione, non chiese il ritiro. Si fece prestare un aereo iracheno e andò in tournée nelle capitali tentando una improbabile mediazione. Portando con sé un fallimento, atterrò al Cairo l´8 agosto. Sempre questo aeroporto. Sempre quei leader, longevi come il dispotismo, ad attenderlo. Molti ci saranno anche oggi. Mubarak, già allora, non sorrideva. Le insegne irachene sull´aereo erano l´ultima offesa. L´estrema risorsa di Arafat era la proposta di una delegazione di raìs da mandare nella sala d´aspetto di Saddam per supplicarlo di recedere. La stroncò Saddam stesso, con un discorso simultaneo in cui esortava le masse arabe alla ribellione contro i loro raìs. Il vertice impacchettò ogni prospettiva e Arafat stesso. Si svolgeva e si chiuse a Nasr City, il quartiere nuovo sorto vicino alla casa dove Arafat era nato e dove non aveva trovato la vita che voleva. Ha avuto, lontano da lì, i suoi giorni di gloria e miseria. Si è fatto molti nemici. Alcuni se li è cercati con ostinazione. Con nessuno, però, ha chiuso per sempre. Mentre il suo corpo vola da Parigi al Cairo e la sua anima si avvia dabbasso, sovviene il ricordo di quel giorno dell´83 in cui tornò in Egitto, nel tempo dell´haj, il pellegrinaggio alla Mecca. Dal Cairo andò a Minja per tirare, come si usa, pietre al diavolo. Gliene diedero sette. Non le scagliò tutte. Gli chiesero perché. Rispose: "Mai chiudere la porta a nessuno".

Gabriele Romagnoli

Gabriele Romagnoli (Bologna, 1960) Giornalista professionista, a lungo inviato per “La Stampa”, direttore di “GQ” e Raisport è ora editorialista a “la Repubblica”. Narratore e saggista, il suo ultimo libro è …