Massimo Mucchetti: De Benedetti: attenti, il capitalismo sta divorziando dalla democrazia

26 Novembre 2004
Carlo De Benedetti sta preparando con la moglie Silvia la festa per il suo settantesimo compleanno che questa sera riunirà nella villa di Sankt Moritz famiglia e amici. Ma non ha alcuna intenzione di tirare le somme di mezzo secolo di lavoro. I bilanci si fanno, se si fanno, quando si smette. E De Benedetti è sempre sulla breccia: da presidente della Cir o come power broker nella politica, attraverso il movimento ‟Liberta & Giustizia”, e nella finanza attraverso la sue relazioni personali di alto livello. Ed è al broker del potere che il ‟Corriere” ha chiesto un’opinione sull’attuale fase del capitalismo.

Ingegner De Benedetti, che cosa si aspetta un capitalista di sinistra ora da Bush?
Capitalista di sinistra? Accetto la definizione a patto che si vada oltre gli stereotipi e si parta da un pensiero di Kennedy: "Una società libera che non è in grado di salvare milioni di poveri non saprà nemmeno salvare pochi ricchi". Credo in un capitalismo meritocratico e solidale. Se questo vuol dire essere un capitalista di sinistra, io lo sono. Con convinzione. Contro l’opinione di molti che da un presidente al secondo mandato si attendono moderazione, ritengo che George Bush jr. vorrà mantenere le sue promesse: confermare il Patriot Act; privatizzare la sicurezza sociale; rendere permanenti i tagli fiscali; la ‟tort reform” per impedire le ‟class action” contro le grandi imprese. Si sente investito di una missione.

La tendenza a destra durerà a lungo?
Non credo. Bush ha vinto nell’America di mezzo dei piccoli centri, dove il 60% delle famiglie ha un’arma in casa e una persona su due va in chiesa almeno una volta la settimana, non nelle metropoli delle due coste e dei grandi laghi. La ‟Ownership society” non ha futuro perché si richiama all’individualismo ottocentesco e non alla società aperta dell’urbanesimo che fatalmente prevarrà sul ruralismo. Ma Bush ha vinto soprattutto per ragioni contingenti: la paura del terrorismo, la guerra. Quando scoprirà di aver investito 300 miliardi di dollari in Iraq senza aver risolto nulla, anche la ‟Bible Belt” capirà che non è con la guerra che si affronta la minaccia del terrorismo. Non mi stupirebbe un’inversione di tendenza già alle ‟mid-term election” tra due anni.

Come andrà l’economia Usa?
Mi attendo un netto rallentamento nel 2005: gli Usa non avranno inflazione, perché le merci dai pesi emergenti - si compra made in China per 150 miliardi di dollari l’anno - calmierano i prezzi; ma la crescita della produttività è già scesa dal 5,7% del 2003 al 2% di quest’anno e il maggior costo dell’energia farà il resto. Il deficit del bilancio federale e della bilancia commerciale favorirà la svalutazione del dollaro, che potrebbe arrivare al 30-40% in due anni.

Che può sperare Eurolandia?
Ma questo è il secolo dell’Asia! A sfidare la superpotenza Usa sarà la Cina o, come dice Goldman Sachs, sarà il Bric, Brasile, Russia, India e Cina. Non aver accompagnato l’euro con le riforme strutturali ha indebolito l’Europa, ma ormai cambierebbe poco. Temo una crescente emarginazione. L’economia si muove sotto la spinta di tre fattori: capitale, lavoro e innovazione.

Capitali ne abbiamo...
Ma da soli non bastano. Il lavoro costa quello che è compatibile con i nostri standard di vita, che sono assai superiori a quelli del Bric. Non c’è niente da fare. Quanto all’innovazione osservo che nessuna multinazionale Usa viene ad aprire centri di ricerca in Europa e che la Nokia è andata ad aprirli in Cina. Dove ha 19 centri anche la Motorola. Vanno in Cina perché là si laurea un milione di ingegneri l’anno.

Il ‟Financial Times” esprime il dubbio che la democrazia non offra più l’ambiente migliore per la crescita economica.
In effetti, la Cina propone un capitalismo demiurgico, monopolista e totalitario. Lee Kwan Yew, dittatore di Singapore per 40 anni, nel periodo maoista era bollato come un lacchè dell’imperialismo. Dieci anni fa visitai la Cina con lui e Kissinger e vidi i cinesi pendere dalle sue labbra. La Cina sta passando dalla dittatura comunista a quella capitalista modello Singapore senza conoscere la socialdemocrazia. In Francia si parla di capitalismo apocalittico.

In Occidente la globalizzazione mette in mora le politiche nazionali e quelle sovranazionali sono inadeguate. Il capitalismo finanziario, ormai prevalente, genera un’epidemia di conflitti d’interesse, per dirla con Guido Rossi.
Detto da un giurista, che ha passato la vita a studiare riforme, fa impressione. Per Rossi la soluzione sta nel recupero della cultura della vergogna. Condivido.

Secondo Rossi, la politica non governerà il business se non dando alla magistratura poteri speciali sui reati societari e cita il giudice Spitzer di New York, un Di Pietro a Wall Street. Lei è passato da Mani Pulite. Che ne pensa?
Di fronte alle Enron e alle Parmalat o al dilagare della corruzione, ben venga la magistratura. Purché i giudici Spitzer non si mettano in testa di fare poi politica capitalizzando la popolarità acquisita nei tribunali.

L’altro baluardo della democrazia, nell’era del capitalismo finanziario, è l’informazione. Ma è essa stessa business.
Per assolvere al suo ruolo nel bilanciamento dei poteri, l’informazione non deve mai diventare un monopolio.

Ha dunque un futuro la tv pubblica?
Sono assolutamente favorevole al servizio pubblico, neppure la Thatcher lo ha privatizzato. Purché, però, sia pagato solo dal canone e non anche dalla pubblicità. Questo genere di tv non deve avere l’ossessione degli ascolti, altrimenti finisce per inseguire la tv commerciale sacrificando la qualità e la ricerca. Non mi convince questa falsa privatizzazione della Rai che, in realtà, lascia le cose come stanno. E non credo nemmeno sia utile privatizzare una rete o due.

Se la Rai non facesse spot, Mediaset guadagnerebbe di più.
Oggi in Italia la tv dedica troppo tempo alla pubblicità. I limiti di affollamento sono ridicolmente alti. Se la Rai rinunciasse alla pubblicità, si dovrebbero ridurre i limiti di affollamento, con beneficio dello spettatore e senza sacrifici per Mediaset, che potrebbe aumentare i prezzi degli spot in ragione della loro maggior efficacia.

Una parola su di lei. Perché, quando è stato a un passo dai tre più importanti traguardi, non ce l’ha fatta? Con la Sme...
È stata la politica a impedirmi, con la corruzione, di costruire un grande polo alimentare Buitoni-Sme. L’avvocato Scalera ha testimoniato in giudizio che aveva costituito una cordata alternativa, che poi non comprò la Sme, perché lo voleva Bettino Craxi.

Lei rilevò un’Olivetti quasi fallita, la portò alle stelle, ma poi non ne fermò il declino: alla sua uscita da Ivrea, in 18 anni, aveva distrutto ricchezza per quasi 6 mila miliardi di lire. Di lì a poco, Omnitel riporterà in alto Olivetti. Ma lei era uscito. Un padrone da licenziare?
No. Capii per tempo che in Europa non si potevano più fare computer. E l’Olivetti è stato l’unico produttore europeo a sopravvivere dandosi una nuova missione: gli altri sono spariti. Omnitel, da me fondata, si è rivelata la più grande creazione di valore della storia recente d’Italia.

Ma perché lascia poco prima del boom?
Fui costretto dalle banche. Soprattutto da Mediobanca. Nessuna capì le potenzialità di Omnitel. Che cos’erano i debiti della vecchia Olivetti davanti alle prospettive di quel gioiello? Niente. Ma le banche misuravano solo i metri quadri dei capannoni.

E il fallito assalto alla Société Générale de Belgique?
Persi per colpa mia. Peccai di troppa arroganza, perché dichiarai di aver vinto prima del tempo, e di troppa prudenza, perché lanciai l’Opa, alla quale non ero obbligato, quando avevo il 15%: sarebbe bastato rastrellare in silenzio fino al 30%, e sarebbe stata fatta.

In conclusione?
Ho avuto più coraggio e più visione di altri. Ho rischiato di più, e forse ho anche perso di più. Ma i successi superano gli insuccessi e di una cosa sono fiero: ho sempre mantenuto la mia indipendenza, anche a costo di sacrificarvi l’interesse economico.

Massimo Mucchetti

Massimo Mucchetti (Brescia, 1953) è oggi senatore della Repubblica. Ha lavorato al “Corriere della Sera” dal 2004 al 2013. In precedenza, era stato a “l’Espresso” per diciassette anni. E prima …