Paolo Di Stefano: Trincale vende il suo mondo di cartone

27 Dicembre 2004
Dopo tanti anni passati per strada e in piazza a cantare e suonare, Franco Trincale vuole finalmente starsene tranquillo a casa sua. Sessanta metri quadri in via Lorenteggio, a Milano, dove vive con sua moglie Lina. A 69 anni, vorrebbe vendere il suo archivio e tirare il fiato. Centoventimila euro non è una gran cifra per acquisire le carte, le lettere, la discografia, i video, gli strumenti musicali, i libri, i collage, i cartelloni di tela di un cantastorie che ha cantato la storia d’Italia degli ultimi cinquant’anni. Centoventimila, perché quei ventimila permetterebbero a suo nipote, rimasto senza madre qualche anno fa, di rifarsi i denti. Il resto servirà, dopo tante battaglie, per passare una vecchiaia tranquilla e senza troppi ingombri in casa, dove adesso bisogna fare lo slalom in corridoio per raggiungere la camera da letto, tra scatole, manifesti arrotolati per terra, armadi stracolmi di materiali. "Mi colloco dentro la notizia, rosicchio la cronaca con semplicità - dice - la mia è una denuncia continua". Trincale è un uomo da battaglia. Ha scelto la battaglia nel ‘59, quando arrivò a Milano dalla sua Militello, in provincia di Catania. Da allora ha raccontato i grandi e piccoli fatti della cronaca e della politica italiana, fino alla guerra in Iraq, alla Scala riaperta e all’assassinio del benzinaio di Lecco: "quella pistola che invece il destino / fece di Davide un assassino". Ha scritto canzoni sugli immigrati al Nord, sul "poliziotto della sesta compagnia che le scatole s’è rotto e se n’è venuto via", sui meridionali che all’inizio degli anni ‘70 occuparono a Milano le case di via Tibaldi, sui figli del Carosello, sugli operai dell’Alfa Romeo che lottarono "per la categoria che discrimina e disunisce e il padrone irrobustisce", sui morti di Piazza Fontana, sugli scioperi resistenziali nelle fabbriche, su Tangentopoli, e soprattutto contro: contro la mafia degli agrari, contro "Nixon boia", contro la "scuola di classe", contro i "discorsi da preti", contro "Almirante il fucilatore". Rime facili e popolari che più popolari non si può, versi carichi di rabbia, di ingenuità e di sarcasmo, nella tradizione pura dei cantastorie, da Michele Straniero a Buttitta, versi che hanno fatto arrabbiare questori e politici. Una tradizione in declino. Per anni ha cantato in corso Vittorio Emanuele, dietro l’abside del Duomo di Milano. Finché un’ordinanza comunale, nel 2002, vietò l’uso di qualunque impianto di amplificazione, "in quanto causa di molestie alla cittadinanza". Si disse che quel che dava fastidio in realtà non erano gli impianti di amplificazione ma le ballate che Trincale dedicò a "San Berlusca", il quale rispose con un dossier di 66 pagine consegnato al Tribunale di Milano (a tale proposito Francesco Merlo sul ‟Corriere della Sera” parlò dell’iniziativa del presidente del Consiglio come di una "sorpresa involontariamente burlesca"). L’ordinanza fu saggiamente ritirata. Ora Trincale vorrebbe appendere al chiodo la sua chitarra storica, una Monzino che gli fu donata dai metalmeccanici di Arese nel ‘68. È una chitarra piena di firme ormai sbiadite. C’è anche quella di Mario Capanna che in una foto d’archivio sorride con lui e con un gruppo di studenti e "compagni" in via Larga, nella Milano del movimento studentesco. Trincale portava un colbacco in stile sovietico. Sotto il colbacco c’era una calvizie eterna e due basettoni d’altri tempi. La calvizie ovviamente è rimasta, ma oggi è circondata da una corona fluente di capelli bianchi. Dal fascio di lettere ricevute negli anni ruggenti, saltano fuori quelle di Berlinguer. Sono lettere per lo più imbarazzate. Anche per il segretario del Pci il cantastorie siciliano, benché fosse una star molto acclamata ai festival dell’Unità, alla fin fine era un rompiscatole. Pur avendo la tessera del partito, Trincale non si sentiva a suo agio e per il partito era troppo anarchico per essere prevedibile. È per questo che le lettere di Berlinguer sono piene di "scusami", "mi dispiace per il tuo rammarico", "comprendo il tuo rammarico, che del resto fa onore al tuo spirito di partecipazione alle lotte che i lavoratori conducono in Italia e al tuo attaccamento al Partito", eccetera. Nel giugno del ‘71, Trincale scrisse al "Caro Compagno Berlinguer" per chiedergli come mai "certe forme di lotta" degli emigranti non fossero gradite al Pci, nonostante tutto il meridionalismo esibito in Tv dai politici comunisti. E aggiungeva con orgoglio: "Non voglio essere strumento di nessuno ma solo al servizio della gente che soffre e che lotta per le cose giuste e umane". Firmato con "saluti fraterni da comunista". La risposta arrivò nel giro di pochi giorni: "Non hai occasione di passare per Roma e di venire a trovarmi? Potremmo conversare un po’sui problemi che mi poni". I problemi che poneva Trincale erano già stati messi nero su bianco da Giancarlo Pajetta in una lettera dell’anno prima, a proposito di un nuovo disco: "In tutta sincerità ti devo dire che due (canzoni) non mi hanno troppo convinto dal punto di vista politico. Quella dello studente figlio di papà ha degli spunti polemici acuti, ma finisce per essere una parodia che, senza che tu lo voglia, mette gli studenti, in generale, contro gli operai in generale. Così mi pare eccessivo dire a chi beve (del resto molto innocentemente) la Coca-Cola o a chi mangia una banana, che aiuta a pagare una pallottola per uccidere un vietnamita o una bomba al napalm". Pajetta non capiva che per arrivare al cuore della gente attraverso la musica bisogna semplificare e che questo, non i bizantinismi politici, era il mestiere di Trincale. Ora Trincale ci ride su. Anche quando ricorda che nel ‘77 consegnò la tessera perché "la militanza non si conciliava più con il mio spirito libertario...". Anche quando ricorda i suoi viaggi in Unione Sovietica a cantare O sole mio ("i russi impazzivano per la canzone italiana") dopo la Ballata di Pinelli; anche quando guarda un video degli ultimi anni Novanta, in cui per le strade di Milano invitava la gente a diffidare dei telefonini. "La mia libertà - dice - è questa...". La sua libertà è avere in un angolo del corridoio tutto lo strumentario utile a sfornare cd: un giradischi, un vecchio computer, un microfono. Li vende a dieci euro in Piazza Duomo, dal produttore al consumatore. Due o tre volte alla settimana, finché la salute tiene. "In tre ore, cento euro te li porti a casa". Che sommati a una pensione di 430 (la sua) e 290 (quella di Lina) gli permettono di campare. Ma non di più. In una lettera del 29 settembre con parole altisonanti ha chiesto aiuto al presidente Ciampi, "affinché sotto la Sua egida tutte le mie cose possano essere acquistate e custodite da qualche seria Istituzione della Repubblica, per così continuare a documentare la storicità epocale, e culturale, a testimonianza del vissuto dei cantastorie nel 2000 nel nostro tessuto sociale". Segue elenco dei "pezzi". Finora si sono fatti vivi un portavoce del Prefetto e un paio di funzionari della Questura: "Lei ha scritto al Quirinale?". Dagli eredi del "suo" partito di un tempo si aspetterebbe "un riconoscimento". "Sono un uomo felice, la mia è solo una paura di prospettiva, non è che posso avere sempre questa voce e questa forza fisica. Non so più dove mettere le targhe, le medaglie e le coppe, ma ormai non posso andare in piazza col freddo e col caldo, mi aspettavo che arrivato a questa età, quando le enciclopedie, modestamente, cominciano a parlare di me, qualcuno...". Srotola un cartellone gigante in cui è illustrata la storia di Colapesce, prende la vecchia Monzino e canta: "Comu mi dici stu tristi distino... E unni finiu Colpisci? Maestà iu sugnu ccà".

Paolo Di Stefano

Paolo Di Stefano, nato ad Avola (Siracusa) nel 1956, giornalista e scrittore, già responsabile della pagina culturale del “Corriere della Sera”, dove attualmente è inviato speciale, ha lavorato anche per …