Vivian Lamarque: Un cuore grande per la metropoli
29 Dicembre 2004
La vigilia di Natale dell’anno scorso Giovanni Raboni, che era ancora tra noi, scrisse su queste pagine un articolo sulla trasformazione della festa della Natività in giorno della santificazione delle merci. Era un articolo molto bello, che ci fotografava tutti nel nostro correre e comprare forsennato. Un pensiero va ora a lui e a tutti i nostri scomparsi che si sono per sempre "fermati". Perché non ci decidiamo a fermarci un po’anche noi, fin da vivi? Persino le luci degli alberi di Natale non sono più capaci di starsene un po’ferme, quiete. Hanno sei-sette diversi movimenti, sono "schizzate" anche loro come noi. Una volta avevano al massimo l’intermittenza, già mi spaventava quella, la pausa del buio mi pareva eterna, non vedevo l’ora che tornassero le lucine. Luna e stelle mica fanno così. Che Natali agitati. Dalla finestra vedo centinaia di auto in moto perpetuo sul cavalcavia, e altre auto ancora in cielo, posteggiate sul tetto della Rinascentina come uccelli sul ramo. Le vetrine illuminate del grande magazzino, con le mille luci degli alberi di Natale, sono sì un conforto per un quartiere grigio e sbranato dal traffico, per chi aspetta al buio del mattino tram che non arrivano mai, ma il messaggio che lanciano, insieme a tutte le altre vetrine del mondo, è uno solo: "Natale è comprare". Anzi, comprare tanto. Nei supermercati, alle code alle casse, chi ha un carrello semivuoto mentre tutti gli altri traboccano si sente quasi in colpa. Natale è comprare, Natale è partire, mettersi in cammino. Ma non all’inseguimento di una stella cometa. Ascoltiamoli i vecchi quando ci raccontano di come tutto era diverso quando loro erano bambini. In campagna, sui davanzali della finestra, mettevano un po’di polenta per Santa Lucia e un po’di fieno per l’asinello. Cercavano di non addormentarsi per sentirli arrivare: "Forse Santa Lucia sarà scalza e non si sentirà, ma gli zoccoli dell’asinello faranno di sicuro rumore". L’indomani trovavano in dono qualche nespola selvatica, di quelle che maturano nella paglia, qualche noce e, se andava bene, un’arancia. La mia prima bambola era fatta di stracci e aveva i capelli di stoppa, i miei fratelli per guardarle la pancia la bucarono, era piena di paglia, la svuotarono tutta e in cinque minuti non c’era più. La notizia del neonato di Torino nato con il cuore troppo grande, un cuore che neppure dopo l’operazione voleva saperne di rimpicciolire, ci colpisce e, naturalmente nel rispetto del bambino e delle ansie dei suoi genitori, ci attacchiamo a questo evento come a una metafora. Come se il mondo gridasse la sua fame di cuore, come se almeno a Natale potessimo dimenticarci di avere un corpo, muscoli da palestrare, adipe da smaltire, rughe da stirare, dimenticarci di ori e paillettes per luccicare come luna-park, il mondo ha bisogno di un cuore grande, di un cuore straripante, specie a Natale, e soprattutto da Natale in poi.