Giovanni Mariotti: Dov’era DIO in quel momento?

10 Gennaio 2005
Qualche giorno fa ascoltai in televisione una superstite dello tsunami. Si trattava di una giovane donna, con un marito e una figlia. Anche marito e figlia si erano salvati. Disse: "Dio ci ha risorteggiato tutti e tre". Parole dietro cui s’intravedeva una teologia dai contorni fluidi: veniva evocato un intervento divino, ma l’intervento aveva la natura modesta di un’estrazione a sorte. Tuttavia la frase mi colpì soprattutto per la sua delicatezza, e l’appropriatezza al contesto e al momento in cui veniva formulata. Dal viso della donna traspariva naturalmente gioia, ma una gioia contenuta Nemmeno persone colpite negli affetti più cari avrebbero potuto provare astio o invidia malevola per un privilegio portato con tanta grazia, senza la presunzione di chi si crede oggetto di protezioni speciali.
Il Diluvio, il terremoto di Lisbona, Auschwitz, lo "tsunami": nei pensieri e nei discorsi legati a questa funesta serie di eventi il nome "Dio" ricorre ai livelli più vari, dalla semplice frase che ho citato alle speculazioni dei teologi. Perché? Perché ci rivolgiamo a Dio soprattutto quando sperimentiamo la nostra fragilità. Questa la ragione principale. Ne ho rilevato un’altra, meno sicura: alla parola "Dio" e alla parola "catastrofe" corrispondono idee per certi versi affini. Anselmo d’Aosta insegnò che pensare a Dio significa sforzarsi di concepire qualcosa di grande, anzi di grandissimo, poi qualcosa di ancora più grande e così via. Alla stessa maniera ci comportiamo quando fantastichiamo di catastrofi: la loro imperfetta perfezione sta nell’essere illimitate. In molti modi Dio e le catastrofi si sono annodati nei pensieri e nei libri. Per averne un’idea, conviene fare un passo indietro, sino ai tempi in cui, avendo gli dei - o l’unico Dio dei monoteisti - deliberato di punire gli uomini, che li avevano irritati, le cateratte del cielo vennero aperte e le acque maschili si rovesciarono sulla terra, mentre le femminili venivano rigurgitate dagli abissi. Quello sterminio fu temperato da un’eccezione (altrimenti non saremmo qui a parlarne): un uomo - uno almeno - sopravvisse. Noè fu il superstite presso gli ebrei, Ziusudra presso i Sumeri, Utnapishtim presso gli assiro-babilonesi, Manu presso gli indiani Due elementi destinati a persistere sino a oggi - l’esperienza di cataclismi e i sensi di colpa degli uomini - costituivano la base di quei racconti. Prima era venuto il peccato, poi il cataclisma come castigo. Questo suggeriva la lettera dei testi. Oggi, dopo Freud, siamo portati a immaginare che prima sia venuto il cataclisma, poi la rimemorazione, o l’invenzione, di una colpa che lo giustificasse. Ma l’antica lettura ha ancora radici profonde: basti ricordare l’opinione di chi (vedi il cardinale Giuseppe Siri) appena ieri giudicava l’Aids un castigo escogitato da Dio contro l’omosessualità o quella dei predicatori che oggi, nelle moschee di Sumatra, vedono nello tsunami lo strumento usato da Allah per punire le discordie tra islamici. La logica degli antichi. Le fiabe smaltate degli antichi disastri si lasciano leggere senza inquietudine. Tutto vi appare straordinariamente semplice: chi doveva morire moriva e chi doveva salvarsi si salvava. Fu quel che accadde anche a Sodoma e Gomorra, la città della pianura su cui nevicò a larghe falde il fuoco. Gli uomini devoti che meditavano su quei disastri non si lasciavano turbare nemmeno dalla sorte delle piccole vittime innocenti, giacché i bambini, secondo una visione che persiste in certe organizzazioni criminali, venivano considerati appendici o attributi dei genitori. Come ha osservato René Girard nei suoi studi sul sacrificio, le vittime, tutte le vittime, erano necessariamente colpevoli. Questo durò fino a quando apparve una nuova religione che aveva al suo centro un vittima innocente. Nata sul tronco del monoteismo, credeva in un Dio infinitamente buono che per di più - come avrebbe scritto, con memorabile ironia, Jorge Luis Borges - disponeva "delle notevoli risorse dell’onnipotenza". Eppure questo Dio creatore aveva dato luogo a un mondo dove il dolore, l’ingiustizia e il disastro erano esperienze quotidiane e il più giusto poteva morire appeso a una croce. Improvvisamente gli uomini si trovarono davanti a un caos di contraddizioni. Ma presto si scoprì che, proprio in ragione di quel caos, la mente umana poteva muoversi con una libertà e una sincerità verso se stessa che non aveva mai conosciuto prima. Tutto era diventato infinitamente complicato, e le domande soverchiavano di continuo le risposte. Alcuni, pur di mettere ordine, inventarono geniali escamotage, altri si gettarono con voluttà nei più vertiginosi paradossi. A volte l’edificio appariva così instabile da far presagire un crollo imminente; altre volte, così solido da far temere che venisse occultata, sotto il peso della sua architettura, la sostanza del messaggio originario. Ma, a garantire la persistenza del nucleo, restava, al centro di tutto, la figura di una vittima senza colpa sotto forma di uomo crocifisso. Da lì era scaturita una nuova sensibilità e da lì poteva, in ogni momento e per ogni individuo, scaturire di nuovo.

La nascita della teodicea.
Nel 1710 Gottfried Wilhelm Leibniz inventò una nuova parola che amalgamava due radice greche, la prima che significava "Dio", la seconda che significava "giustizia". La parola era "teodicea" e stava a indicare una dottrina tesa a dimostrare la conciliabilità della bontà e dell’onnipotenza di Dio con la presenza del male nel mondo. Se il termine era inedito, non lo era l’obiettivo perseguito. Le sterminate pagine dei Padri della Chiesa avrebbero potuto fregiarsi in gran parte di quell’etichetta. Come in democrazia sono spesso previste forme di immunità per gli eletti del popolo, così in teologia ci si era sforzati per secoli di sottrarre Dio all’accanimento inquisitorio delle sue creature. La tesi prevalente affermava: non è Lui il responsabile, responsabili sono gli uomini. Dio si era limitato a crearli liberi e la libertà era una buona cosa. Alcuni cercarono di limitare la portata del Male. Agostino d’Ippona, che in gioventù aveva aderito al manicheismo - vale a dire a un sistema che vedeva nel Bene e nel Male le due radici costitutive dell’Universo - sostenne che non aveva una sua realtà indipendente, ma era sempre relativo al Bene. Per comprovare questa tesi, o altre analoghe, i teologi profusero tesori d’ingegno. Purtroppo di tanto in tanto capitavano calamità che non era facile attribuire alla responsabilità degli uomini e nemmeno considerare per un verso o per l’altro vantaggiose. Proprio al termine di un’argomentazione ineccepibile le mura potevano mettersi a tremare. Un fenomeno come il terremoto era una spada di Damocle che incombeva sulla teodicea. Lo si vide quando Lisbona fu scossa dalle fondamenta e l’Atlantico si abbatté sulle sue rive. Era il primo novembre 1755. Il piccolo poema che Voltaire scrisse in quell’occasione non colpisce per le qualità letterarie (modeste), ma per la nettezza con cui vi sono individuate le questioni nodali. Leibniz aveva scritto che gli uomini vivono nel migliore dei mondi possibili - un mondo che è opera di un Dio giusto e buono. Voltaire colloca quell’affermazione sullo sfondo di Lisbona distrutta e invita i leibniziani a ripetere i loro argomenti al cospetto dei bambini morti e in mezzo ai rantoli delle agonie. Non si tratta di una confutazione filosofica, ma di un gesto molto più efficace e perentorio: la teodicea viene tagliata fuori dalla realtà, dichiarata irricevibile. In seguito, con ben altra grazia, la polemica proseguirà nelle pagine scintillanti del Candido. Lisbona e Voltaire diedero una scrollata formidabile all’edificio da sempre pencolante della teodicea (anche se la filosofia avrebbe trovato altre vie e altri linguaggi per proclamare che ciò che è reale è razionale, e dunque in definitiva buono). Il colpo di grazia sarebbe arrivato due secoli più tardi, da Auschwitz. Epilogo paradossale, giacché Auschwitz era sicuramente opera e responsabilità degli uomini. Ma il troppo stroppia. Come ha osservato il teologo ebraico Hans Jonas neIl concetto di Dio dopo Auschwitz, l’Essere che aveva permesso quell’eccidio aveva compromesso per sempre la possibilità di una dottrina che affermasse contemporaneamente la sua infinita bontà e la sua onnipotenza.

Diario di un dolore.
In questi giorni, reagendo alle notizie sulla tsunami, l’arcivescovo di Canterbury Rowan Williams si è chiesto, in un articolo pubblicato dal ‟Sunday Telegraph”: "Ma dov’era Dio quando è successo questo?". Domande del genere risvegliano attenzione tanto nei credenti quanto nei non credenti, per i quali l’assenza di Dio è cosa familiare. Possono anche suscitare diffidenza, giacché resta il dubbio che si tratti non di gridi dell’anima ma di tortuosi artifici a cui ricorre un’apologetica ridotta a mal partito. In fondo, la domanda su dove fosse Dio proprio nel momento in cui c’era bisogno di lui è un topos letterario, presente in opere famose (per restare in ambito inglese, nel Diario di un dolore di Clive S. Lewis). Ma queste considerazioni mi sembrano meno importanti di un’altra: un interrogativo come quello dell’arcivescovo di Canterbury non esce dai confini della teodicea, anzi la conferma in tutto e per tutto. Forse Dio era occupato o distratto, ma se fosse stato presente e attento, viste la sua bontà infinita e la sua onnipotenza, il terremoto del Sudest asiatico non avrebbe avuto luogo. "Dio non ci abbandona" ha ripetuto da parte sua Giovanni Paolo II nei giorni dello tsunami: non è né lontano né distratto. Non ci abbandona, ma i terremoti avvengono ugualmente. Ignoro come i credenti percepiscano e introiettino l’Essere di cui parla il Papa. Di sicuro è un Dio buono, ma è anche un Dio onnipotente? Non ho elementi per rispondere a una simile domanda. Posso solo registrare l’impressione, tratta da una normale consuetudine con quanto viene riferito da giornali e televisione, che nei discorsi del Papa il tema dell’onnipotenza non ricorra quasi mai. Si direbbe che in proposito Giovanni Paolo II preferisca glissare. La nostra mente vive di immagini parziali. L’immagine parziale che traspare dalle parole del Papa, e persino dalla sua fragilità di uomo vecchio e malato, è quella di un Dio incarnato, che conosce la fatica di vivere, le complessità del dolore e della sventura, il peso di essere uomini. Con questa entità certo né debole né sconfitta, ma capace di accogliere nei suoi pensieri ogni debolezza e ogni sconfitta, e ormai estranea agli sterili labirinti della teodicea, anche un non credente può dialogare.

Giovanni Mariotti

Giovanni Mariotti, versiliese collabora al Corriere della Sera.