Alessandra Arachi: "Don Puglisi continua a morire. Non è cambiato niente"

17 Gennaio 2005
Si accendono le luci in sala: volti rigati di lacrime, nasi rossi e gonfi. La storia di don Pino Puglisi, il prete di frontiera ucciso a Palermo dalla mafia, ha commosso tutti qui alla proiezione in anteprima alla Casa del Cinema, Villa Borghese, Roma. I sorrisi di quei bambini del quartiere Brancaccio: cazzotti all’indifferenza. Si intitola Alla luce del sole, il film. Lo ha diretto Roberto Faenza e Luca Zingaretti ha dato corpo e voce al protagonista. Non è soltanto un bel film, "Alla luce del sole". Don Pino Puglisi venne ucciso undici anni fa, il 15 settembre 1993, il giorno del suo cinquantaseiesimo compleanno, un anno dopo le stragi dei giudici Falcone e Borsellino. "E adesso? Adesso don Antonio ci può dire com’è la vita di Palermo?". Adesso che è finita la proiezione si apre il dibattito ed è il giornalista David Sassoli che incalza con le domande. È don Antonio Garau il primo a prendere la parola, lui che nella realtà è andato a prendere il posto di don Puglisi in quel quartiere che a Palermo si chiama Brancaccio e dove da tempo la legge la decide la mafia: "A Palermo? Non è cambiato nulla in questi undici anni. La mentalità è la stessa. L’illegalità immutata. I giovani sono abbandonati, come prima. Più di prima". Passa la voglia di commuoversi: non è soltanto un film quello che si è appena visto. Se ne rendono conto tutti gli ospiti del dibattito in sala. Don Antonio Garau ha raccontato che alla vigilia di questo Natale sono state tagliate tutte le gomme delle auto fuori dalla Chiesa, ma che dentro la Chiesa hanno anche rubato tutte le elemosine: "Non è cambiato nulla. Nemmeno la coscienza per affrontare questi problemi". Tornano in mente le immagini dei bambini di don Puglisi: davano in pasto i gatti ai cani per eccitarli prima dei combattimenti. Trasportavano cassette di tritolo nascosto tra le arance. Agli uomini dei clan costavano poche manciate di spiccioli. "Avendo io sessant’anni di vita politica alle spalle, davanti a quello che ho visto posso solo fare l’imputato. Con l’aggravante di essere stato sottosegretario all’Interno. Poi ministero dell’Interno. Poi sette anni sul Colle". Quello di Oscar Luigi Scalfaro è il primo dei mea culpa. Segue a ruota quello di Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Corte costituzionale: "Che cos’è la legalità? Forse nei nove anni alla Corte costituzionale avremmo dovuto fare qualche cosa in più per ricostruire una comunità intorno all’idea di legalità, invece ci siamo divisi". Ma la stoccata arriva dopo: "La mafia ha una sua tradizione, persino una sua cultura: per il ceto politico è più ragionevole dunque conviverci piuttosto che affrontarla". Walter Veltroni, sindaco di Roma, punta il dito contro il cinismo dilagante: "Contro la criminalità organizzata c’è un solo antidoto: la creazione di un’opinione pubblica. Serve il coraggio di mettere la testa fuori e dire: "Basta, facciamola finita"". Brillano negli occhi i sorrisi dei bambini di don Puglisi, felici con il pallone tra i piedi. Inutilmente: "Il centro "Padre nostro" che don Pino aveva aperto non funziona più. Il campo da calcetto è fuori uso e ogni volta che provano a ripararlo viene distrutto di nuovo", dice Pietro Grasso, capo della Procura di Palermo. E non esita: "La verità è che il quartiere Brancaccio è un "territorio a perdere"...".

Alessandra Arachi

Alessandra Arachi, nata a Roma nel 1964, giornalista al “Corriere della Sera”, con Feltrinelli ha pubblicato: Briciole. Storia di un’anoressia (1994), da cui è stato tratto l’omonimo film per tv con la …