Danilo Zolo: Porto Alegre. Un'altra forma è possibile?

07 Febbraio 2005
Uno dei temi che sono stati discussi al Forum sociale mondiale di Porto Alegre è la riforma delle istituzioni internazionali. Più di ottanta organizzazioni non governative si sono date appuntamento per mettere a punto, in particolare, un progetto di riforma delle Nazioni unite. L'obbiettivo è promuovere una loro trasformazione che le renda più forti e più democratiche. A sessant'anni dalla loro fondazione, le Nazioni unite sono deboli, delegittimate, sempre più emarginate. Si è lanciata perciò l'idea di un movimento mondiale che le restituisca alle funzioni originarie e le apra alla partecipazione dell'intera "società civile globale". Le Nazioni unite dovrebbero essere trasformate in un governo mondiale democratico, in grado di regolare i processi di globalizzazione secondo principi universali di giustizia e di pace. La campagna per la riforma delle Nazioni unite dovrebbe culminare in una giornata di mobilitazione il 10 settembre prossimo. Il tema della riforma delle istituzioni internazionali è di grandissimo rilievo. Ed è molto importante che il Forum sociale mondiale abbia deciso di dedicare una analisi specifica alla dimensione giuridica e istituzionale dei fenomeni internazionali. Ovviamente, le difficoltà sorgono quando si passa dalla critica dell'esistente e dalla rivendicazione di valori universali all'analisi delle premesse di fatto che possono rendere plausibile il progetto riformista. Altrettanto difficile è l'individuazione di soggetti politici che siano in grado di imporre alle grandi potenze la riforma delle istituzioni internazionali. Di letteratura riformista rimasta senza esito, a partire dal classico World Peace Through World Law, di Clark e Sohn, sono pieni gli scaffali.
La questione cruciale è se le Nazioni Unite sono riformabili in una direzione che le renda più forti e, nello stesso tempo, più democratiche. Posto che esse siano riformabili, sarebbe comunque il caso di chiedersi se sia auspicabile l'avvento di qualcosa che assomigli a un governo mondiale centralizzato - una sorta di Santa Alleanza del terzo millennio -, ispirato ai più alti valori etico-politici e sostenuto dalle maggiori potenze economiche e militari del pianeta.
In una visione realistica si dovrebbe riconoscere che le Nazioni unite sono difficilmente riformabili in senso democratico, tanto più se si pensa di restituire al consiglio di sicurezza i poteri politico-militari previsti da alcuni articoli del capitolo VII della Carta, da tempo caduti in desuetudine. Le Nazioni unite non sono riformabili se, più in generale, si ritiene che la funzione principale delle istituzioni internazionali sia quella controllare e limitare anche con l'uso della forza il potere politico e militare delle grandi potenze. Questo richiederebbe una drastica limitazione del potere degli Stati uniti, che oggi sono i garanti della stabilità egemonica del mondo, della sua "costituzione imperiale".
Un progetto, anche minimo, di democratizzazione delle Nazioni unite richiederebbe la soppressione della qualità di "membri permanenti" - titolari, per di più, del potere di veto -, che alcune grandi potenze si sono dispoticamente attribuite entro il consiglio di sicurezza. E richiederebbe l'attribuzione all'assemblea generale di funzioni dotate di cogenza normativa. Ma nessuno dovrebbe illudersi che le attuali grandi potenze - se non costrette da profondi cambiamenti negli equilibri politici, economici e militari del pianeta - accettino di sedersi al tavolo della "democrazia mondiale" assieme ai rappresentanti dei paesi più poveri e più deboli. Nessuno dovrebbe illudersi che esse siano disposte a prendere parte a processi decisionali democratici - ove ciascun soggetto internazionale conti per uno -, se le decisioni riguardano questioni cruciali per gli equilibri strategici del pianeta.
È impensabile, in particolare, che gli Stati uniti siano disposti a cedere anche una modestissima porzione dei privilegi di cui godono entro il consiglio di sicurezza. Non lo faranno certo attraverso un processo di riforma che richieda il loro consenso e non sia invece imposto da contropoteri emergenti. Dal loro punto di vista l'attuale struttura del consiglio di sicurezza, che attribuisce il potere di veto ad altri quattro paesi oltre agli Stati uniti, è "troppo democratica" e non troppo poco. Questa struttura corrisponde all'equilibrio dei poteri stabilizzatosi a conclusione della seconda guerra mondiale. Ma oggi, dopo il crollo dell'impero sovietico, il potere di veto dovrebbe essere attribuito soltanto agli Stati uniti. Ed è questa, d'altra parte, la prassi che si è instaurata nel corso dell'ultimo quindicennio. Di fatto soltanto gli Stati uniti hanno esercitato il potere di veto, mentre la Cina, la Russia, la Francia e l'Inghilterra non hanno mai osato servirsene.
Ed è questa la logica imperiale che ha ispirato il recente discorso di insediamento del presidente Bush. La diffusione della democrazia nel mondo significa proprio il contrario della "democrazia internazionale". Significa l'autolegittimazione politico-militare dell'uso della forza, al di fuori di ogni riferimento al diritto e alle istituzioni internazionali, come raccomandano da tempo vestali neocons quali Robert Kagan e William Kristol. E il preteso successo di "libere elezioni" in un Iraq militarmente occupato viene interpretato come una conferma epocale dell'irresistibile avanzata della democrazia grazie alle iniziative unilaterali degli Stati uniti: una scia di sangue che dai Balcani porta all'Afghanistan e all'Iraq. E sta per portare anche all'Iran.
È dunque realistico ritenere che oggi le Nazioni unite siano riformabili solo in una direzione gerarchica e illiberale. Lo provano fra l'altro i primi risultati della procedura avviata da Kofi Annan per la riforma delle Nazioni unite. Il documento prodotto dai commissari dell'High-Level Panel, a parte le trivialità umanitarie di cui è infarcito, lascia intatta la struttura gerarchica delle Nazioni unite, salvo dispensare qualche minimo privilegio ad alcune potenze economiche o demografiche. Fatto ancora più grave, il documento introduce nuove ipotesi di uso della forza da parte del consiglio di sicurezza all'insegna della dottrina statunitense dell'humanitarian intervention , già praticata in Iraq, in Somalia, nei Balcani, ad Haiti.
Un'ipotesi alternativa agli attuali progetti di riforma delle Nazioni unite andrebbe cercata in una direzione più radicale ma nello stesso meno ambiziosa. Messa da parte l'idea illuministica e giacobina del "governo mondiale" e della "polizia internazionale", la ricerca dovrebbe spingersi nella direzione di un assetto pluralista e policentrico delle istituzioni internazionali. Occorrerebbe opporre alla loro attuale struttura centralista e universalista l'idea di istituzioni regionali, anche geograficamente dislocate rispetto all'occidente, con compiti più limitati e di carattere assai più preventivo che repressivo. L'ipotesi sarà tanto più plausibile quanto più emergeranno nei prossimi anni "grandi spazi" politici in competizione con l'egemonia imperiale degli Stati uniti: l'Europa e la Cina, anzitutto, ma forse anche il subcontinente latino-americano, con in testa il Brasile, l'Argentina e il Venezuela.

Danilo Zolo

Danilo Zolo ha insegnato Filosofia del diritto e Filosofia del diritto internazionale nella facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Firenze. È stato Visiting Fellow in numerose università inglesi e statunitensi e …