Marina Forti: Esercizi di libertà tra le pieghe del potere
14 Febbraio 2005
Da più di vent'anni Shahla Lahiji, una bella treccia a incorniciare il viso sotto un foulard nero, dirige la casa editrice Roshangaran, che spazia dalla letteratura ai women's studies: e pubblicare libri in Iran significa avere a che fare direttamente con il potere, la censura, il limite tra ciò che è ammesso o proibito. Nel suo ufficio di Tehran, ben allineati sugli scaffali, romanzi di giovani scrittrici iraniane, pièces di teatro, scritti sul cinema, e poi, sociologia, storie di battaglie sociali, scritti sui diritti delle donne. E un grande album illustrato, un'antologia sulla libertà di stampa in Iran: riproduce testate di giornale, locandine di film, copertine di magazines che sono stati chiusi, uno dopo l'altro, finché nell'album resta una grande pagina nera. Shahla Lahiji ha sperimentato di persona questo limite quando ha partecipato a una conferenza internazionale, a Berlino, sul futuro delle riforme sociali e politiche in Iran: era la primavera del 2000, era una di diciannove oratori venuti dall'Iran - persone impegnate come l'avvocata Mehranguiz Kar, nota per la sua difesa della legalità democratica e dei diritti umani. Al ritorno a Tehran, tutti sono stati arrestati. Lahiji e Kar hanno trascorso alcuni mesi nel carcere di Evin, a Tehran, e sono state infine condannate per attentato alla sicurezza dello stato e "propaganda contro il sistema islamico". È in quel periodo che dodici giornali sono stati chiusi in un sol giorno: è la pagina nera dell'antologia bene in mostra nel suo ufficio, in un piccolo appartamento di Tehran. "Hanno cercato in tutti i modi di ridurci al silenzio", sorride: la stampa e l'editoria vivono in libertà vigilata, testate aprono e chiudono, i libri aspettano mesi o anni un visto della censura.
Noi però, dice Lahiji, "abbiamo imparato a crescere tra le pieghe del potere". Cosa intende? "Per esempio, il fatto che una giovane regista sia riuscita a parlare d'amore in un film senza farselo bocciare dalla censura. Mostrando i piedi della protagonista che si muovono al ritmo della musica riuscendo così a trasmettere l'emozione dell'innamoramento". Insomma, la società iraniana, e le donne in primo luogo, hanno imparato a dire ciò che non è dicibile in modo esplicito ("e però, che fatica!").
Solo pochi anni fa il settimanale Zanan, vicino alla sua casa editrice, ha pubblicato un'intervista che ha fatto storia: il neoeletto presidente della repubblica Mohammad Khatami parlava di "società civile" e sosteneva che le donne hanno un ruolo protagonista nella società. Era il 1997 e sembrava l'avvio di una nuova epoca.
"Era un momento di speranza, è vero. Per la prima volta nella storia della nostra democrazia i cittadini hanno scoperto di avere un potere: avevano votato per qualcuno che stava fuori dai giochi e l'avevano eletto. Khatami non aveva dalla sua gli apparati di comunicazione o la tv. Però era diverso dagli altri, parlava di società civile, libertà. Non ha mai precisato cosa intendesse dire, ma non importa: gli iraniani hanno visto un barlume di cambiamento e l'hanno votato. Per me, la speranza non stava in Khatami, ma in questa grande forza popolare. Quello che è successo dopo è la conseguenza: lo stato ha temuto il potere espresso dal voto popolare e in questi otto anni ha fatto di tutto per annientarlo. Hanno picchiato studenti, arrestato giovani per la strada, chiuso giornali, censurato scrittori. Quando hanno capito che il presidente non reagiva, sono andati ancora più pesante. I riformisti? Hanno badato più alla lotta di potere che a mantenere la promessa fatta alla società civile. Khatami è un'ottima persona, colto, gentile: solo, forse non era un buon presidente".
L'esperienza delle riforme ormai è chiusa, un anno fa il parlamento è tornato in mano a una maggioranza conservatrice e lo stesso presidente Khatami è alla fine del suo mandato. Ma di quella grande speranza resta qualcosa?
Resta molto. La posizione delle donne è un buon indicatore: sono entrate in scena ottime scrittrici, registe, autrici di teatro, avvocate. I cambiamenti culturali richiedono tempo, certo, ma ormai sono innescati e vanno ben oltre le grandi città. Tra i giovani, ad esempio, le relazioni tradizionali tra donne e uomini cambiano. Penso a un documentario girato in una zona rurale assai arretrata: c'è una donna di appena 24 anni di nome Zahra, di mestiere ripara motociclette e le guida. In Iran è malvisto che una donna si metta a cavallo di una moto, anzi è vietato: lei però va in moto e nessuno trova da ridire. È anche la levatrice del villaggio, tutti si fidano di lei al punto che l'anno scorso è stata eletta nel consiglio municipale. È soltanto un esempio: e però il 65 per cento degli iscritti alle università iraniane sono ragazze, il futuro di questo paese dipenderà molto da loro. Le donne sono il simbolo del cambiamento nella società.
Qual era la sua occupazione prima di diventare editrice?
Prima della rivoluzione, da studentessa, scrivevo per qualche settimanale o per la radio. Ma la censura era forte, ai tempi dello scià. La rivoluzione ha aperto tante speranze di libertà, anche se presto sono crollate. Spesso mi sento ricordare che prima della rivoluzione islamica le iraniane erano emancipate, ed è vero: ma solo l'élite vicina al potere. La rivoluzione ha cambiato la vita delle donne. Prima, le ha coinvolte. Poi le ha rinchiuse in mille limitazioni: hanno abbassato l'età del matrimonio, abolito il diritto a divorziare - i mariti però possono ripudiare la moglie. Hanno bandito le donne dalla magistratura e da molte professioni. Molte impiegate sono state rimandate a casa perché non tenevano un "buon comportamento" islamico. Sono stati tempi bui. Poi però gli eventi hanno spinto le donne a reagire. E dopo la lunga guerra con l'Iraq, alla fine degli anni `80, le donne sono riemerse con forza. La generazione che aveva dovuto subìre il chador ha trovato nuove vie d'uscita, ad esempio nel gran numero di associazioni indipendenti nate negli anni Novanta: quasi sempre gli attivisti sono donne. Una piccola pattuglia di deputate ha portato in parlamento battaglie sul divorzio e l'affido dei figli, o contro il matrimonio delle bambine. Ora trovi donne nelle professioni, nel cinema, nella letteratura: e hanno fatto tutto da sole.
Quando ha fondato la casa editrice?
Ho cominciato nell'83. Pensavo che uno dei problemi dell'Iran fosse il silenzio degli intellettuali. Quando vengono commessi degli errori, intellettuali e politici hanno una responsabilità. In quei primi anni Ottanta, quando le speranze di libertà della rivoluzione sono crollate, questo silenzio ha pesato. Ci sono voluti vent'anni perché gli iraniani tornassero a sentire che questa società gli appartiene. Anche per questo penso che Khatami sia imperdonabile per aver deluso tante speranze.
Sta parlando dei giovani iraniani?
Loro non hanno colpe, né responsabilità, né ideologie. Non sono idealisti come noi che avevamo fatto la rivoluzione. Reagiscono alla situazione. Capita di vedere ragazze con il rossetto nero e ragazzi con il gel nei capelli alle processioni religiose: magari i miliziani li picchiano, ma loro restano là. E poi si buttano sui nuovi mezzi di comunicazione, su internet. Non sono isolati, hanno connessioni con il mondo: è per questo che lo stato cerca di filtrare i siti web. Hai l'impressione che l'intera gioventù iraniana stia aspettando qualcosa. E qualcosa accadrà: una rivoluzione sociale pacifica. Accadrà attraverso le parole, i romanzi, il teatro, il cinema. Certo, è una fatica, ma è qui, all'interno dell'Iran che avverrà il cambiamento: nessuno ha fiducia nei gruppi di exilés che lanciano messaggi dall'estero. Anzi: se ci fosse un attacco esterno, io andrei subito a difendere il mio paese: nessuno vuole una "democrazia" importata. Glielo ripeto, i cambiamenti culturali sono lenti, ma ormai sono inarrestabili.
Shahla Lahiji indica l'ultimo scaffale, i titoli più recenti. Ecco una raccolta di scritti di Shirin Ebadi: "L'abbiamo titolato Non è successo nulla di importante: è così che il presidente Khatami ha commentato il suo premio Nobel".
Noi però, dice Lahiji, "abbiamo imparato a crescere tra le pieghe del potere". Cosa intende? "Per esempio, il fatto che una giovane regista sia riuscita a parlare d'amore in un film senza farselo bocciare dalla censura. Mostrando i piedi della protagonista che si muovono al ritmo della musica riuscendo così a trasmettere l'emozione dell'innamoramento". Insomma, la società iraniana, e le donne in primo luogo, hanno imparato a dire ciò che non è dicibile in modo esplicito ("e però, che fatica!").
Solo pochi anni fa il settimanale Zanan, vicino alla sua casa editrice, ha pubblicato un'intervista che ha fatto storia: il neoeletto presidente della repubblica Mohammad Khatami parlava di "società civile" e sosteneva che le donne hanno un ruolo protagonista nella società. Era il 1997 e sembrava l'avvio di una nuova epoca.
"Era un momento di speranza, è vero. Per la prima volta nella storia della nostra democrazia i cittadini hanno scoperto di avere un potere: avevano votato per qualcuno che stava fuori dai giochi e l'avevano eletto. Khatami non aveva dalla sua gli apparati di comunicazione o la tv. Però era diverso dagli altri, parlava di società civile, libertà. Non ha mai precisato cosa intendesse dire, ma non importa: gli iraniani hanno visto un barlume di cambiamento e l'hanno votato. Per me, la speranza non stava in Khatami, ma in questa grande forza popolare. Quello che è successo dopo è la conseguenza: lo stato ha temuto il potere espresso dal voto popolare e in questi otto anni ha fatto di tutto per annientarlo. Hanno picchiato studenti, arrestato giovani per la strada, chiuso giornali, censurato scrittori. Quando hanno capito che il presidente non reagiva, sono andati ancora più pesante. I riformisti? Hanno badato più alla lotta di potere che a mantenere la promessa fatta alla società civile. Khatami è un'ottima persona, colto, gentile: solo, forse non era un buon presidente".
L'esperienza delle riforme ormai è chiusa, un anno fa il parlamento è tornato in mano a una maggioranza conservatrice e lo stesso presidente Khatami è alla fine del suo mandato. Ma di quella grande speranza resta qualcosa?
Resta molto. La posizione delle donne è un buon indicatore: sono entrate in scena ottime scrittrici, registe, autrici di teatro, avvocate. I cambiamenti culturali richiedono tempo, certo, ma ormai sono innescati e vanno ben oltre le grandi città. Tra i giovani, ad esempio, le relazioni tradizionali tra donne e uomini cambiano. Penso a un documentario girato in una zona rurale assai arretrata: c'è una donna di appena 24 anni di nome Zahra, di mestiere ripara motociclette e le guida. In Iran è malvisto che una donna si metta a cavallo di una moto, anzi è vietato: lei però va in moto e nessuno trova da ridire. È anche la levatrice del villaggio, tutti si fidano di lei al punto che l'anno scorso è stata eletta nel consiglio municipale. È soltanto un esempio: e però il 65 per cento degli iscritti alle università iraniane sono ragazze, il futuro di questo paese dipenderà molto da loro. Le donne sono il simbolo del cambiamento nella società.
Qual era la sua occupazione prima di diventare editrice?
Prima della rivoluzione, da studentessa, scrivevo per qualche settimanale o per la radio. Ma la censura era forte, ai tempi dello scià. La rivoluzione ha aperto tante speranze di libertà, anche se presto sono crollate. Spesso mi sento ricordare che prima della rivoluzione islamica le iraniane erano emancipate, ed è vero: ma solo l'élite vicina al potere. La rivoluzione ha cambiato la vita delle donne. Prima, le ha coinvolte. Poi le ha rinchiuse in mille limitazioni: hanno abbassato l'età del matrimonio, abolito il diritto a divorziare - i mariti però possono ripudiare la moglie. Hanno bandito le donne dalla magistratura e da molte professioni. Molte impiegate sono state rimandate a casa perché non tenevano un "buon comportamento" islamico. Sono stati tempi bui. Poi però gli eventi hanno spinto le donne a reagire. E dopo la lunga guerra con l'Iraq, alla fine degli anni `80, le donne sono riemerse con forza. La generazione che aveva dovuto subìre il chador ha trovato nuove vie d'uscita, ad esempio nel gran numero di associazioni indipendenti nate negli anni Novanta: quasi sempre gli attivisti sono donne. Una piccola pattuglia di deputate ha portato in parlamento battaglie sul divorzio e l'affido dei figli, o contro il matrimonio delle bambine. Ora trovi donne nelle professioni, nel cinema, nella letteratura: e hanno fatto tutto da sole.
Quando ha fondato la casa editrice?
Ho cominciato nell'83. Pensavo che uno dei problemi dell'Iran fosse il silenzio degli intellettuali. Quando vengono commessi degli errori, intellettuali e politici hanno una responsabilità. In quei primi anni Ottanta, quando le speranze di libertà della rivoluzione sono crollate, questo silenzio ha pesato. Ci sono voluti vent'anni perché gli iraniani tornassero a sentire che questa società gli appartiene. Anche per questo penso che Khatami sia imperdonabile per aver deluso tante speranze.
Sta parlando dei giovani iraniani?
Loro non hanno colpe, né responsabilità, né ideologie. Non sono idealisti come noi che avevamo fatto la rivoluzione. Reagiscono alla situazione. Capita di vedere ragazze con il rossetto nero e ragazzi con il gel nei capelli alle processioni religiose: magari i miliziani li picchiano, ma loro restano là. E poi si buttano sui nuovi mezzi di comunicazione, su internet. Non sono isolati, hanno connessioni con il mondo: è per questo che lo stato cerca di filtrare i siti web. Hai l'impressione che l'intera gioventù iraniana stia aspettando qualcosa. E qualcosa accadrà: una rivoluzione sociale pacifica. Accadrà attraverso le parole, i romanzi, il teatro, il cinema. Certo, è una fatica, ma è qui, all'interno dell'Iran che avverrà il cambiamento: nessuno ha fiducia nei gruppi di exilés che lanciano messaggi dall'estero. Anzi: se ci fosse un attacco esterno, io andrei subito a difendere il mio paese: nessuno vuole una "democrazia" importata. Glielo ripeto, i cambiamenti culturali sono lenti, ma ormai sono inarrestabili.
Shahla Lahiji indica l'ultimo scaffale, i titoli più recenti. Ecco una raccolta di scritti di Shirin Ebadi: "L'abbiamo titolato Non è successo nulla di importante: è così che il presidente Khatami ha commentato il suo premio Nobel".
Marina Forti
Marina Forti è inviata del quotidiano "il manifesto". Ha viaggiato a lungo in Asia meridionale e nel Sud-est asiatico. Dal 1994 cura la rubrica "TerraTerra" che riporta storie quotidiane in …