Vittorio Zucconi: Lo scrittore ribelle che sposò Marilyn. La morte di Arthur Miller

14 Febbraio 2005
John Huston, il regista che tentò di tradurre per il cinema la sceneggiatura dei Misfits e fare finalmente di Marilyn Monroe una grande attrice drammatica, ricordava nelle sue memorie: "Una sera, alla fine delle riprese nel mezzo di un deserto, vidi un uomo seduto da solo ai bordi della strada, al quale nessuno aveva dato un passaggio. Marilyn, Clark (Gable), Montgomery (Clift) se ne erano già andati via insieme e tutti si erano dimenticati di lui. Rallentai la macchina e vidi chi era quell’uomo. Era Arthur Miller, l’autore, il marito di Marilyn. Nessuno si era ricordato di caricarlo, neppure Marilyn". Quell’uomo solo, dimenticato nel mezzo di una nazione che per lui era ormai diventata un deserto, è morto ieri a quasi 90 anni, di cancro, portando via un tempo, un’epoca, un’America che ormai lo aveva lasciato a piedi. Miller era un gigante. Realmente. Alto due metri, con mani enormi come pale e l’incedere sempre lievemente curvo delle persone molto alte circondate da uomini e donne più piccoli, come lo ricordano all’Actors’Studio di Manhattan dove spesso parlava agli aspiranti attori, si muoveva con quella timidezza gentile del più grosso che i newyorkesi, come lui era, spesso nascondono dietro la scontrosità e la ruvidezza. Era nato da una famiglia di immigrati ebrei in una guerra, la Grande Guerra, ed era cresciuto nella guerra sociale della Depressione, quando l’esplosione di un’altra bolla di Borsa aveva spazzato via la bottega di abbigliamento femminile del padre, Isidore Miller. Apparentemente, nulla nella sua infanzia e nella sua adolescenza aveva segnalato in quello spilungone costretto a fare sport al liceo dalla statura un futuro da intellettuale engaged, impegnato, come si sarebbe detto molti anni dopo. "Le mie letture erano i giornali di Hearst", ricordava, quella yellow press, la stampa scandalistica e chiassosa da tabloid che lo accompagnava ogni mattina nei trasferimenti in treno dalla casetta di Brooklyn dove la famiglia aveva dovuto rinchiudersi dopo il fallimento, verso il grossista di ricambi per auto, dove lavorava. Ma tra i fogli della spazzatura giornalistica di Hearst, si insinuò un libro, I fratelli Karamazov di Dostoevskij. Gli venne voglia di scrivere. Andò a studiare lontano da New York, nell’Università del Michigan. Giornalismo, all’inizio, la solita scorciatoia degli aspiranti scrittori. Merito di Dostevskij o del talento naturale insospettato, Arthur scoprì di saper scrivere bene, talmente bene da vincere il primo premio in una competizione nazionale di scrittura fra gli studenti, vinto anche da un certo Tennessee Williams, il futuro autore di Un tram chiamato desiderio e La gatta sul tetto che scotta. Come si dice per tagliar corto, aveva trovato la sua vocazione, il teatro, ma la sua vocazione ancora non aveva trovato lui. La prima opera rappresentata, L’uomo che aveva tutte le fortune, aprì a Broadway una sera di primavera del 1944. E chiuse la sera dopo. Avrebbe dovuto aspettare cinque anni, e altri due mezzi fiaschi teatrali consolati dai complimenti della critica, per scrivere e mettere in scena, il lavoro che avrebbe per sempre, nel sempre della letteratura e della cultura, inciso il suo nome fra i giganti, non più soltanto fisici. Il 1949 fu l’anno di Willy Loman, il protagonista di quella Morte di un commesso viaggiatore che gli studenti di cose americane e gli esploratori di questa nazione dovrebbero leggere come guida indispensabile all’America. La storia del piazzista di successo, che da un giorno all’altro si trova senza lavoro dunque senza più la propria ragione di essere, e finisce nel suicidio per permettere alla moglie di incassare la polizza per la vita e continuare a vivere il sogno americano, resta la parabola essenziale di una nazione che è, prima di essere ogni altra cosa, una nazione di instancabili venditori di cose, di immagini e di sogni, riassunto nella frase del presidente Calvin Coolidge, "the business of America is business", gli affari dell’America sono gli affari. Il successo del Commesso viaggiatore, maturato nel clima di una cultura post depressione impregnata di "realismo", "esistenzialismo", "rooseveltismo" che stava producendo i film di Elia Kazan, il teatro di Williams, di O’Neill e la generazione di attori "ribelli senza una causa" alla Brando e James Dean, spinse "l’uomo più fortunato del mondo" inesorabilmente in quel crogiolo di politica, di fama, di antipatie e di rancori ideologici che avrebbe preso il nome di Mccarthysmo. Miller fu accusato di essere un "compagno di viaggio", un utile idiota, un comunista e come tale fu trascinato davanti al patetico e feroce Torquemada dell’inquisizione anti-rossi. Dovette confessare la colpa atroce di avere partecipato a qualche riunione di intellettuali sponsorizzate - pubblicamente - dal partito comunista americano e di avere firmato appelli per la pace. Gli fu tolto il passaporto e non poté partire per Bruxelles, dove sarebbe stato rappresentato il suo dramma Il crogiolo, ricostruzione volutamente allegorica dei processi e delle impiccagioni di streghe nella Salem del 1692 e dei fenomeni di isteria collettiva. Quando rifiutò di fare nomi di altri "comunisti" come lui davanti all’Inquisitore, fu condannato per "oltraggio al Parlamento", una condanna che i tribunali ordinari annullarono nel 1958, restituendogli il passaporto. Ma non la pace, che la vita, i fiaschi, i trionfi, i processi e i successi gli avevano consumato per sempre. Proprio negli anni della persecuzione maccarthysta, nel 1956, "l’uomo più fortunato del mondo" aveva sposato, in seconde nozze, la donna che tutti gli uomini del mondo meno fortunati avrebbero voluto sposare, Norma Jean, una Marilyn Monroe trentenne, fresca del divorzio da Joe Di Maggio e non ancora devastata dalla propria insicurezza, dall’alcol e dalle pillole. La relazione tra "il gufo e la gattina", come fu prevedibilmente battezzata quell’unione tra l’allampanato scrittore newyorkese ormai perennemente nascosto dietro i suoi enormi occhiali e la succulenta bionda californiana (Marilyn era nata a Los Angeles, il primo giugno del 1926) fu inevitabilmente la materia per ogni tipo di elucubrazione psicoanalitica, di interpretazioni metaforiche, di facili simbolismi. Ma se il matrimonio era costituzionalmente destinato a fallire, come accadde infatti nel 1961 in uno squallido divorzio messicano, nessuna biografia o memoria ha mai stabilito se questi due esseri umani si fossero amati davvero, oltre all’attrazione fra opposti. Marilyn cercava in lui quel visto di uscita dalla gabbia dei bamboleggiamenti sexy, di mutandine esposte da sbuffi di aria, di stupidità bionda da copione che gli studios le imponevano. Arthur, che per lei scrisse la sceneggiatura del pessimo Misfits (Gli spostati, 1961), chiedeva vita, corpo, carnosità per un’esistenza che rischiava di evaporare nell’intellettualismo. Ma se era Miller a nutrire i sogni di emancipazione di Marilyn, era Marilyn a nutrire il portafogli di Miller. Pagava lei, per esempio, gli alimenti alla prima moglie di Arthur Miller. La loro "story" andò a intercettare, e ad alimentare, un tempo che produceva miti indimenticati e crudeli, i Kennedy, l’alba della rivolta di una nuova generazione di baby boomers inquieti e destinati al Vietnam, l’integrazione razziale, la noia della prosperità post bellica, il confronto sempre più scottante con l’Urss, verso i missili di Cuba. La vita di Arthur Miller non finì con il divorzio da Marilyn, come invece finì la vita di lei, suicida appena un anno dopo, nel 1962, ma nella sua produzione artistica, il periodo "post Marilyn" non tornò mai allo splendore del periodo "pre Marilyn". Dovette trascorrere quasi un decennio, dal matrimonio del ‘56, perché tornasse in teatro con Dopo la caduta, un lavoro ovviamente ispirato, nella protagonista che si autodistrugge, alla vita della ex moglie, ma le opere degli anni Novanta passarono accolte dal rispetto, ma non dal successo, riservato al mito, più che alla realtà. "Il teatro probabilmente non è morto" disse in quegli anni "ma la televisione, con le cifre che paga ad attori bravi o cattivi, lo sta dissanguando di talenti". Ci fu, e ancora continua, una piccola resurrezione teatrale, con il ritorno alla scene dei vecchi classici, dell’immortale Commesso viaggiatore, delCrogiolo, rinverdito dalla nuova isteria repressiva da terrore attizzata dai politicanti in cerca di voti, ma l’attualità dei simboli stride contro il tramonto di un tempo americano che l’ultimo dei suoi grandi cantori ha portato via con sé, ieri.

Vittorio Zucconi

Vittorio Zucconi (1944-2019), giornalista e scrittore, è stato condirettore di repubblica.it e direttore di Radio Capital, dove ha condotto TG Zero. Dopo aver cominciato nel 1963 come cronista precario a …