Jean-Paul Fitoussi: I bassi salari non pagano più, ora si punti sulla domanda interna

04 Marzo 2005
L’aumento, talora considerevole, dei profitti delle grandi imprese in Europa ha naturalmente riportato al centro del dibattito pubblico la questione dei salari, e più in generale quella del contributo dei profitti alla crescita. In effetti, se da un lato i salari nel nostro continente non aumentano, dall’altro c’è da interrogarsi sui riflessi di questa realtà in termini di investimenti e di occupazione. In questo contesto, molti osservatori si sono affrettati a denunciare i comportamenti delle imprese, accusandole di privilegiare gli interessi di una sola delle parti in causa nella loro attività: quella degli azionisti. Ma non si tratterà di un’illusione legata all’immediatezza? Il tempo, diceva Joan Robinson, è un concetto inventato dagli uomini per evitare che le cose avvengano tutte insieme. E come osservò a suo tempo il cancelliere Schmidt, dopo tutto i profitti di oggi sono gli investimenti di domani, e saranno i posti di lavoro di dopodomani. I quali ultimi - potremmo aggiungere - il giorno successivo si trasformeranno in salari. Dunque, un po’di pazienza: lasciamo ai processi dinamici il tempo di sortire i loro effetti. Che però stiamo ormai aspettando, come si vedrà, da un buon quarto di secolo. Per vederci più chiaro, incominciamo col non confondere la morale con i comportamenti razionali in funzione dell’economia di mercato. L’oggetto stesso dell’attività di un’impresa è il perseguimento del massimo profitto, che si riesce ad ottenere avvantaggiandosi il più possibile del contesto nel quale si opera. Come chiedere alle imprese di pagare salari più alti di quanto consenta il mercato del lavoro, quando al consumatore non si domanda di pagare prezzi maggiori di quelli dettati spontaneamente dal mercato? Dunque, al di là del giudizio etico sul comportamento delle imprese, è la situazione del mercato del lavoro a costituire la chiave per comprendere la questione dei salari. Il problema non è certo nuovo, ma dalla fine degli anni '70 il suo enunciato ha subito varie trasformazioni. Al principio vi fu un fenomeno che tutti oggi riconoscono: dalla metà degli anni '70 fino ai primi anni '80, nonostante lo shock petrolifero e un minore incremento della produttività del lavoro, i salari continuavano ad aumentare a un ritmo non sostenibile, spostando la ripartizione del valore aggiunto a vantaggio del lavoro, e riducendo sensibilmente i profitti delle imprese. Dal 1970 al 1980, l’aumento annuo dei salari reali è stato in media del 3,8% in Germania, del 3,6% in Francia, del 3,9% in Italia e "soltanto" del 2,9% nel Regno Unito (ove il "trentennio glorioso" lo è stato un po’meno che altrove). La diagnosi che allora s’impose fu quella "classica": la disoccupazione era imputata ai salari troppo elevati; era quindi necessario impegnarsi a contenerli per ripristinare la redditività delle imprese. Si incominciò dunque ad agire in questo senso, Sia in Francia che nella maggior parte degli altri paesi, fin dalla prima metà degli anni '80. Gli sforzi maggiori furono quelli compiuti in Francia e in Germania (con aumenti medi limitati rispettivamente allo 0,7% e allo 0,8% l’anno); un po’minori in Italia (aumento medio dell’1,7%) e paradossalmente quasi inesistenti nel Regno Unito (+ 2,5%). Alla fine di quel decennio la questione dei salari poteva quindi sembrare risolta, almeno nell’Europa continentale. Ma la disoccupazione non accennava a diminuire. Di conseguenza cambiò la natura dell’enunciato: visto che ormai era difficile imputare la disoccupazione a una media salariale troppo alta, si puntò il dito sulla remunerazione del lavoro meno qualificato, giudicata troppo elevata a fronte della globalizzazione (la concorrenza dei paesi a bassi livelli salariali) nonché della rivoluzione delle tecnologie, dell’informazione e della comunicazione. Occorreva dunque proseguire sulla via del rigore, evitando però di comprimere troppo il potere d’acquisto dei bassi salari. Perciò si è passati a ridurre, anche se con modalità e gradazioni diverse, gli oneri sociali gravanti sui salari più bassi. Ma l’andamento dei livelli salariali degli anni '90, più che alle politiche economiche strutturali, va ascritto al perdurare della disoccupazione di massa. Certo, le varie misure di deregulation del mercato del lavoro (con il moltiplicarsi dei tipi di contratti) hanno giocato un ruolo nei vari paesi europei. Ma non si può non ammettere una semplice realtà: quando manca il lavoro, chi lo cerca è disposto ad accettare anche le condizioni di remunerazione e di lavoro meno favorevoli. Ecco perché negli anni '90 la dinamica dei salari reali evidenzia un ulteriore appiattimento, con medie di aumento annuo dello 0,1% in Italia, lo 0,3% in Germania, lo 0,5% in Francia. Al confronto, gli sviluppi del Regno Unito e degli Stati Uniti, con l’1,4% di incremento annuo, appaiono addirittura invidiabili. Dal 2001 la situazione si presenta quasi immutata; ma il periodo è troppo breve e accidentato perché se ne possano trarre indicazioni consistenti. In Francia, probabilmente per effetto dei successivi aumenti del salario minimo (Smic), le remunerazioni sembrano evolvere in maniera un po’più dinamica (+1,1%); situazione analoga in Italia (+0,8%), mentre in Germania la stagnazione continua. La sorpresa viene dal Regno Unito, dove il ritmo degli aumenti salariali (+2,7% l’anno) si avvicina a quello degli anni '70. Di fatto, un quarto di secolo di moderazione salariale nei paesi dell’Europa continentale non è bastato a far regredire la disoccupazione. Tanto che oggi molti osservatori sono tentati a rovesciare la diagnosi originaria: dopo un periodo così prolungato di quasi stagnazione, non c’è il rischio che oggi i salari siano troppo bassi per consentire il ritorno alla piena occupazione? è in questo contesto che si giudicano irragionevoli i profitti delle imprese, invitate di conseguenza a ripartire più equamente il frutto degli aumenti di produttività. Ma perché mai dovrebbero farlo? Non spetta a loro coordinare le attività economiche, né preoccuparsi del bene comune. In un’economia di mercato, ognuno deve badare ai propri interessi. Come disse Milton Friedman, "le imprese hanno una sola responsabilità sociale: quella di produrre utili". E se le imprese, in un dato paese della zona euro, volessero adottare comportamenti più altruistici che altrove, non rischierebbero di perdere in competitività quanto possono aver guadagnato in reputazione? In effetti, in un regime a moneta unica, senza più la possibilità di disporre degli strumenti di politica economica, gli "aggiustamenti locali" in campo occupazionale dipendono dall’andamento dei salari relativi. Se ad esempio l’Italia decidesse un aumento generale dei salari, ad approfittarne non sarebbero innanzitutto la Francia e la Germania? Certo, le cose non sono tanto semplici: in Italia le attività nel campo dei servizi non delocalizzabili (esternalizzabili) ne risulterebbero migliorate, e gli aumenti salariali potrebbero avere persino effetti positivi sulla produttività. Resta però il rischio che anziché in Italia, i posti di lavoro aumentino in Francia e in Germania. Le cose andrebbero diversamente se le imprese europee decidessero insieme una politica salariale generosa. E all’occorrenza, un lieve deprezzamento dell’euro consentirebbe di salvaguardare la competitività europea rispetto alle altre regioni del mondo. Ma l’Europa non si sta muovendo in questo senso. La parola d’ordine delle politiche europee è oggi la riforma strutturale, innanzitutto sul mercato del lavoro (riforma del diritto del lavoro, tentativo di introdurre il principio del mutuo riconoscimento ecc.). Può anche darsi che queste riforme siano utili in un contesto di tensione sul mercato del lavoro. Ma non lasciamoci ingannare: in una situazione di disoccupazione di massa e di stagnazione dei salari, il loro primo effetto sarà quello di accentuare ulteriormente la moderazione salariale. Difatti, il termine di "riforme strutturali" dissimula l’attaccamento alla tesi iniziale, che vede un solo modo per risolvere il problema della disoccupazione: ridurre il costo del lavoro. Che uso fanno le imprese dei loro profitti? Perché non ne investono una quota maggiore? Se lo facessero, il conseguente aumento dell’attività e dell’occupazione finirebbe per tradursi in moneta sonante per i lavoratori dipendenti. Ma le imprese potrebbero rispondere: a che serve investire di più su un mercato in debole espansione (meno del 2% l’anno negli ultimi due decenni), caratterizzato oltre tutto da un andamento monetario paradossale? In effetti le monete europee, e in seguito l’euro, hanno sempre avuto tendenza a rivalutarsi nei periodi di rallentamento; per questo non si può pensare a realizzare investimenti in Europa come trampolino per conquistare i mercati mondiali, nel momento in cui la domanda interna è fiacca. La strategia razionale delle imprese consiste allora nell’investire su mercati diversi da quello europeo, oppure nel riacquistare le proprie azioni per spingerne in alto la quotazione e proteggersi da eventuali Opa. Non è certo una situazione favorevole per i lavoratori europei. Occorre una politica di crescita risoluta e credibile per indurre le imprese a reinvestire i loro utili sul mercato interno. Solo così si potrebbe determinare un aumento dei salari, che servirebbe anche l’interesse, correttamente inteso, delle stesse imprese. Si avvierebbe infatti un circolo virtuoso, dall’anticipazione della crescita agli investimenti, dall’aumento dell’occupazione a quello dei salari, che a loro volta alimenterebbero anticipazioni di crescita ottimistiche.
Traduzione di Elisabetta Horvat

Jean-Paul Fitoussi

Jean-Paul Fitoussi (1942) è professore all’Institut d’études politiques di Parigi e presidente dell’Ofce, l’Osservatorio francese delle congiunture economiche. Fa parte del consiglio di amministrazione di Telecom e del consiglio di …