Irene Bignardi: Robert Capa. Il grande fotografo di guerra che amava l’avventura, l’etica e il gin

23 Marzo 2005
Ci sono immagini così cariche di riferimenti, di allusioni e di risonanze che diventano le protagoniste assolute dell’immaginario nutrito nei confronti del loro autore. Munch senza Il grido? Be’, in effetti per ora bisogna accontentarsi di ricordarlo. E così, anche nei confronti di un grande, grandissimo del fotogiornalismo come Robert Capa, la celeberrima foto del miliziano che muore colpito da una pallottola, colto dalla macchina fotografica proprio mentre il suo corpo si piega all’indietro nel dolore, è una immagine che concentra un di più di significati e di simboli - e anche un’immagine su cui, proprio per questo concentrato simbolico di valenze umane e storiche e di grandezza giornalistica, si sono scatenate le polemiche e le invenzioni calunniose (che fosse una scena ricostruita, una "sceneggiata"): tutte rintuzzate dalla logica della vita e della morte di Robert Capa e dalla argomentazioni chiarissime che mette in campo Richard Whelan nella presentazione del bel libro che lo scorso anno venne editato da Contrasto per l’anniversario della morte del grande fotografo. Per la precisione il miliziano ha un nome, si chiama Federico Borrell Garcia, il luogo era Cerro Muriano, meno di tredici chilometri a nord di Cordoba, e la sua morte è registrata quel giorno negli archivi del governo spagnolo. Questo per dire che nell’attesa dell’incontro con queste immagini dense di riferimenti spesso si trascurano altri momenti dell’opera di un autore. La bella mostra che è approdata ora a Berlino ed è dedicata a Robert Capa nel Martin-Gropius-Bau (fino al 19 aprile), è costruita invece con tanta passione e intelligenza da farci dimenticare la caccia al "capolavoro", da farci percorrere le tappe di una vita e di un lavoro straordinario scoprendone il resto, la parte meno vista e meno visibile. Anche perché la mostra contestualizza le foto di Capa nella cornice del suo lavoro giornalistico, mettendo in evidenza i giornali, le riviste, il modo in cui venivano pubblicate e impaginate le foto scattate dai fronti a rischio continuo della vita - come si è visto dalla sua tragica morte a quarant’anni in Indocina, nel 1954, saltando su una mina - , facendoci capire come venivano presentate quelle immagini al lettore che voleva sapere di quelle guerre e di quelle battaglie. E proprio perché c’è tanto, c’è tutto, dalla guerra di Spagna alla Cina, dallo sbarco in Normandia all’Indocina, si legge anche il percorso dell’uomo Capa, fotografo di guerra ma soprattutto uomo di pace, che vede la sofferenza della gente, il suo modo di sopravvivere, la gioia dei bei momenti, il terrore della fuga. Un altro grande recentemente scomparso, Henri Cartier-Bresson, l’ha definito "un avventuriero con un’etica". Avventuriero, suppongo, perché in effetti di avventure Capa ne ha attraversate molte, da quando se ne è andato a diciassette anni, nel 1930, dalla sua tranquilla posizione di figlio della borghesia ungherese diventando, da Endre Friedman che era, Robert Capa, un nome che si pronuncia uguale in tutte le lingue, quasi anticipando un futuro di continui giri per il mondo. Con un’etica, certo, perché basta guardare le sue foto, il rispetto per le persone, la scelta delle situazioni, per capire che dentro l’avventuroso avventuriero che sapeva anche godersi la vita in tutte le sue forme c’era un uomo pieno si sensibilità umana. Se tuttavia la realtà darà poi ragione alla sua morosa, Gerta Taro, anche lei fotografa, che lo proponeva nelle redazioni dei giornali come "il grande fotografo americano", se Picture Post lo definiva (azzeccandoci), per ovvie ragioni giornalistiche, "il più grande fotografo di guerra del mondo", facendo i conti si scopre che Capa ha solo venticinque anni quando scatta le sue famose undici foto dalla Spagna repubblicana in guerra pubblicate appunto da Picture Post: dove, accanto alla celeberrima immagine del miliziano, c’è anche il lato della gente, della durissima vita quotidiana. È questo che raccontano le sue foto, che racconta la mostra. La visione di un ragazzo pieno di umanità. E con una vita che si riempie subito di dolore, perché la sua amata Gerta muore, travolta da un carro repubblicano. Tra molte birre e molti gin, tra molti amici meravigliosi e molte guerre in cui dimenticare, Capa nel 1938 è in Indocina con Ivens a fotografare la resistenza del popolo cinese contro l’invasione giapponese, poi di nuovo in Spagna, poi in Francia, dove ritrae Léon Blum, poi emigra negli Stati Uniti, dove gli negano il passaporto ma lo mandano a documentare lo sbarco in Normandia. Altro che Saving Private Ryan. Altro che la celebre battuta di Capa "Se una foto non viene bene, vuol dire che non eri abbastanza vicino". Lui era lì, in mezzo a quel glorioso massacro, e anche se la cronaca ci dice che molte, troppe foto dello sbarco sono andate perdute per uno stupido errore del laboratorio, anche se sono leggermente fuori fuoco (come si intitola anche la sua autobiografia) perché Capa dice di aver avuto paura, quelle che sopravvivono, e in cui la gente ha riconosciuto l’eroismo di quei ragazzi di Omaha Beach, sono dei monumenti al coraggio dei protagonisti e una prova di grande giornalismo. Prima c’è stato lo sbarco alleato in Sicilia, e quella foto straordinaria del piccolissimo contadino siciliano che indica al gigantesco americano - opportunamente inginocchiato per essere alla sua altezza - la strada che hanno preso i tedeschi in ritirata. Poi le emozionanti immagini della liberazione di Parigi e la durezza della vendetta sulle collaborazioniste. Poi ci sarà il viaggio con Steinbeck in Unione Sovietica, dove ambedue vivono un doloroso ripensamento. Infine l’Indocina, e la mina che lo uccide a quarant’anni. Tutto glorioso, tutto grandioso. Ma il percorso che si snoda da una guerra a una battaglia, da una foto "epocale" all’altra, attraverso le immagini di un fotogiornalismo coraggioso e impegnato, è scandito, nella mostra berlinese, da altre immagini, da altre vite, dalla curiosità per la gente, da un profondo respiro umano.

Irene Bignardi

Irene Bignardi (1943) ha lavorato per il servizio cultura de “la Repubblica” fin dalla sua fondazione, e per lo stesso quotidiano è stata critica cinematografica; ha diretto il MystFest, ha …