Irene Bignardi: Diane Arbus. La fotografa sedotta dall´orrore

31 Marzo 2005
Era la loro amica o la loro nemica? Era una persona che guardava ai suoi soggetti con simpatia e una fotografa che cercava l´orrore e la stranezza come suo perverso trademark? Era qualcuno che guardava alla difficoltà di vita dei propri soggetti con pietas o qualcuno convinto, come lei stessa ha scritto, ‟che ci sono cose che nessuno vedrebbe se io non le fotografassi”, come se gli altri fossero ciechi o insensibili alla stranezza o al dolore?
La risposta viene - forse - dalla grandiosa mostra dedicata a Diane Arbus approdata dopo un giro di un anno al Metropolitan Museum of Art di New York, che la accoglie in undici grandi sale al primo piano, accanto a quelle che ospitano la pittura classica (fino al 30 maggio). E viene in parte dalla interpretazione dettata dal suo suicidio (spettacolare, dice una leggenda non confermata, secondo cui Diane Arbus avrebbe documentato secondo per secondo la sua morte nella vasca da bagno), il 26 luglio del 1971, quando la bella, giovane, brillante fotografa, certamente la più originale di una generazione che alla fotografia ha dato tantissimo, venne trovata morta nel suo appartamento di Manhattan. Perché quella morte per dolore di vivere e nevrosi illuminava tutta la ricerca sui diversi, i freaks, gli ‟aristocratici” della sofferenza, come li chiamava Diane Arbus, della luce dell´empatia: anch´io sono diversa e vi riconosco come diversi, e quindi come uguali, e quindi come fratelli, e quindi non c´è stato ‟sfruttamento” da parte mia, come qualcuno ha voluto vedere, solo simpatia e empatia.
In base a questa lettura non esisterebbe dunque la poetessa dei ‟freaks”, la donna sedotta dalla stranezza e dall´orrore apparentemente normale o decisamente eccentrico, ma qualcuno che soffriva dello stesso senso di diversità, qualcuno che nel corso di una vita nata dal privilegio e dalla bellezza ha scoperto nel profondo del suo essere l´affinità nevrotica e dolorosa con un mondo che la sconvolgeva, qualcuno che ha trovato la diversità all´interno dell´apparente normalità come un rabdomante trova l´acqua nell´apparente deserto.
Perché quello che si scopre percorrendo - in un silenzio tombale – ‟Diane Arbus Revelations”, una mostra straordinaria, più ricca e profonda di qualsiasi altra mai dedicata a Diane Arbus dai tempi della mostra al vecchio MoMA del 1972, è che non sono tanto sconvolgenti le foto classiche - il gigante ebreo nella sua casa con i vecchi genitori, il travestito in bigodini, le due gemelle identiche (che, per inciso, ispirarono a Kubrick le due sorelle di Shining), il giovane fanatico patriota con il badge ‟Bomb Hanoi”, la mostruosa famiglia di Long Island composta di cloni di Elizabeth Taylor e James Dean, il ragazzo coi bigodini e le sopracciglia ritoccate (imbarazzantemente simile a Donald Sutherland), la ‟dominatrice” vestita di mascherine e cuoio con il suo cliente, o il transessuale che posa in atteggiamento femminile, col pene ben nascosto tra le gambe - , ma le foto sulla apparente normalità da cui Diane Arbus rifuggiva e per cui aveva una sensibilità allergica che la aiutava a vedere il ridicolo, l´assurdo, il goffo, l´orribile autorappresentazione di ogni atteggiamento consolidato.
E quindi: le signore in pelliccia, i coniugi che al ristorante si abbuffano e tacciono, i bambini in posa ispirata per la foto commemorativa della comunione, l´albero di Natale gigante che invade la modesta stanza di Lewitton in cui è stato collocato, il bambino con una granata in mano a Central Park, l´anziana coppia di nudisti in una casetta, James Brown con i bigodini, i bambini che piangono disperati mentre nessuno se ne occupa perché... che noia sono i bambini che piangono, le signore liftate e imbellettate in cappello e visone.
Qui sta la vera crudeltà di Diane Arbus, non nella sua fascinazione con i freaks. Sta nel fare vedere a noi «normali» il sottile confine che ci divide dalla stranezza, dal ridicolo, dalla pacchianeria, dalla volgarità: così sottile che i suoi soggetti non si accorgono di questo confine e vanno al di là, come forse capita anche a noi, inconsapevoli di entrare, di quando in quando o per sempre, nel mondo dei ‟diversi” - diversi almeno quanto gli altri, i suoi ‟freaks”, sono invece dei ‟mostri” (nel senso delle espressioni più singolari della cultura dell´infelicità).
La mostra illustra questo percorso e anche, in alcune sale molto belle e molto dense, la vita e la sofisticata cultura che ha composto Diane Arbus, da quando nacque nel 1923 come Diane Nemerov, figlia di una prospera famiglia di commercianti ebrei di origine russa con casa a Central Park West, sorella di Howard, cinque anni più grande di lei e futuro poeta e premio Pulitzer, al matrimonio con Allan Arbus appena compiuti diciotto anni, alla prima figlia Doon, e poi Amy (e una bella foto scattata da Howard, anche lui fotografo e pigmalione di Diane, ci mostra le sue tre donne che giocano assieme), fino al 1956, quando, sostenuta da Lisette Model, la grande fotografa austriaca che le fece da mentore e da maestra (e che diceva ‟la macchina fotografica è uno strumento di scoperta. Fotografiamo non solo quello che conosciamo, ma anche quello che non sappiamo”), Diane, mentre il matrimonio entrava in crisi, cominciò a fare le sue prime fotografie da sola: foto, subito, da Diane Arbus, prima con la Nikon, poi in un formato quadrato, che prevedeva (ed è questo un dato importante) molta complicità da parte dei soggetti, e poi con la Pentax, che ‟rendeva le foto più narrative e temporali, meno uniche e fisse e singole”.
La sua storia racconta un rapporto unico e sincero con il mondo dei normali e dei diversi e, attraverso di loro, attraverso la dissonanza tra loro e il sogno americano degli anni Sessanta, accusa una società che ha fatto della bellezza e della felicità la sua unica ragion d´essere e mostra qualcosa che l´America non voleva vedere. E che adesso va in pellegrinaggio a vedere.

Irene Bignardi

Irene Bignardi (1943) ha lavorato per il servizio cultura de “la Repubblica” fin dalla sua fondazione, e per lo stesso quotidiano è stata critica cinematografica; ha diretto il MystFest, ha …