Giorgio Bocca: Stato e Mafia connubio accecante

08 Aprile 2005
Le prove della complicità, della coesistenza tra lo Stato italiano e la Mafia sono così grandi e irrefutabili da avere un effetto accecante: la gente si specchia in quel sole e ne rimane abbacinato, ha visto tutto ciò che c'è da vedere e non ci crede, se tutto è così chiaro, pensa, nulla è chiaro.
Prendiamo le ultime polemiche sul covo palermitano di Totò Riina, fra coloro che si chiedono perché i carabinieri non lo perquisirono dopo l'arresto del capo dei capi e la partenza della sua famiglia e su chi sostiene che si trattò di un equivoco poliziesco, non fu perquisito perché servisse da esca.
Ma la presenza a Palermo, in un quartiere residenziale, in una villetta con piscina, del covo del più grande ricercato per mafia di Italia, la presenza di casa e ufficio sua e della famiglia del boss a cui lo Stato dava la caccia, il fatto che quella casa servisse, indisturbata, da base operativa del più temuto fuorilegge della Penisola che per cinque anni ci visse indisturbato con moglie e figli, il fatto che questa moglie e questi figli fossero fisicamente riconoscibili con nomi, cognomi e parentele criminali e nessuno li disturbasse, non è una prova totale, accecante, che nessuno in realtà li cercava?
La moglie di Totò Riina metteva al mondo i suoi figli in un ospedale di Palermo assistita da un medico di fiducia a tutti noto, di cui feci il nome sui giornali, e lui non lo sapeva che era sorella di Bagarella, il secondo della Mafia, e nessuno nel quartiere, nelle scuole, negli uffici del Comune si chiese come mai la famiglia Riina poteva abitare al centro di Palermo e lui quasi ogni giorno poteva viaggiare in auto per la città e i dintorni per fare affari, vedere gente.
Non è logico, evidente, chiarissimo che non veniva catturato perché nessuno lo cercava, che agiva indisturbato perché questo faceva parte del patto di coesistenza fra Stato e Mafia?
Ora da Palermo don Nino Fasullo, direttore di Segno, referente inevitabile di decenni di giornalismo, mi segnala le ultime osservazioni del suo gruppo di studio sul processo Andreotti.
"Incredibile, secondo gli accertamenti dei giudici Giulio Andreotti scese due volte in Sicilia, una delle quali da presidente del Consiglio, la prima nella tenuta La Scia degli imprenditori Costanzo, un'altra in una villetta del mafioso Inzerillo presso Palermo per incontrare i vertici di Cosa Nostra, ovvero della criminalità organizzata al fine di dissuaderli dall'uccidere il presidente della Regione Piersanti Mattarella e per discutere assieme come intervenire per limitare la sua azione politica ritenuta pregiudizievole degli interessi economici del sodalizio mafioso".
Dunque Andreotti era in grado di incontrare personalmente i capi della Mafia, di cui conosceva piani e scelte, e di trattare con essi del fare e del non fare. Tutte le volte che si legge delle relazioni non occasionali, non periodiche di Andreotti con la criminalità organizzata, si resta allibiti, senza parola. La trattativa fallisce, l'onnipotente uomo politico non ottiene ciò che chiede. Torna a casa con le pive nel sacco. Va in procura a raccontare tutto? Non ha il coraggio di gridare nelle televisioni, nei giornali ciò che è accaduto?
Neppure per sogno, non convoca il parlamento per denunciare al cospetto del paese Cosa Nostra, i suoi uomini, i suoi crimini. Potrebbe bastar da sola la storia di Andreotti a chiarire il significato, i limiti e le responsabilità storiche della esperienza politica dei cattolici italiani in Sicilia e nel Sud.
Ma Andreotti partecipa da protagonista alle riunioni parlamentari e al suo processo è stato assistito da una delegazione di partito diretta dall'attuale presidente della Camera. La Democrazia cristiana anche se divisa resta inaffondabile.

Giorgio Bocca

Giorgio Bocca (Cuneo, 1920 - Milano, 2011) è stato tra i giornalisti italiani più noti e importanti. Ha ricevuto il premio Ilaria Alpi alla carriera nel 2008. Feltrinelli ha pubblicato …

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