Furio Colombo: Funerali del Papa. Il Patto di Roma

11 Aprile 2005
Che cosa è successo l’otto aprile, giorno dei funerali del Papa, fra milioni di persone presenti e decine di milioni davanti a un video o in una piazza del mondo?
Che cosa è successo di indimenticabile? È successo che il presidente israeliano Katsav ha salutato in ‟farsi” il presidente iraniano Khatami e ha stretto la mano al più grande nemico del suo Paese, Assad di Siria, lo ha salutato in arabo (Khatami, una volta tornato in patria, ha smentito, ma il fatto è comunque avvenuto). È successo che lo Ayatollah Khatami, considerato a Washington uno degli avversari più temibili dell’equilibrio del mondo, sedesse un posto più in là del presidente Bush figlio e quasi addosso al presidente Bush padre. È successo che Condoleezza Rice, Segretario di Stato degli Usa si è trovata accanto, in mezzo, a volte un poco più indietro, di capi di governo e di regimi (Africa, Asia, Medio Oriente) sospetti o avversari agli occhi gelidi della diplomazia. Ma non c’erano occhi gelidi, quel giorno, nella piazza San Pietro di Roma. C’erano occhi commossi, persino fra coloro che non avresti immaginato colpiti dalla morte del Papa.
I capi di Stato e di governo partecipano continuamente a grandi eventi formali, incontrano i re e le regine, si scambiano scherzi e gentilezze, si lasciano filmare e fotografare in gruppo per ricordo. Ma si incontrano sempre in gruppi di affini. C’è un di qua e un di là, una parte nostra e una parte estranea, in qualunque evento del mondo, e persino quando il mondo è in pace. Quando non ci sono nemici (ma ci sono sempre) ci sono estranei e ci sono esclusi.
Dunque tutti non si incontrano mai. Per questo Franklin Delano Roosevelt aveva immaginato le Nazioni Unite che vuol dire un patto preliminare che impegna tutti a stare con tutti, ad ascoltare e conversare con tutti, al di là delle linee di affinità, di relazioni diplomatiche, di alleanze.
Ma anche al di là di quei tratti di differenza storica che ci piace chiamare (specialmente se si tratta di definire la nostra parte) la civiltà. L’impegno era che nessuno si sentisse autorizzato a dire che la sua civiltà era superiore a quella di un altro.
In cambio di questo progetto minimo-massimo, si dichiarava accettabile, per realismo, l’imperfezione e anche i problemi interni di molti Paesi. Alcuni non erano liberi ma, all’Onu erano costretti ad osservare le regole del voto, dunque di una parziale democrazia, che avrebbe potuto contagiarli. Molte tragedie, forse la più grande di tutte, la guerra atomica, sono state evitate.
Per sapere quale livello di esempio morale e di impegno politico può raggiungere una organizzazione planetaria anti-guerra come le Nazioni Unite, basti ricordare il nome, la vita, la morte di Dag Hammarskjold, un Segretario Generale delle Nazioni Unite che hanno dovuto uccidere per rimuovere un ostacolo insormontabile al genocidio in Africa.
Più vicino ai nostri giorni, possiamo ricordare il lavoro tenace e paziente dell’Onu di Perez de Cuéllar durante gli anni peggiori della guerra civile in Libano, un suo ignoto vice-segretario generale italiano, che non è mai comparso e non si è mai fatto celebrare nei ricevimenti del mondo, ha liberato da solo, ad uno ad uno, con un lavoro paziente, estenuante, discreto e senza mezzi per pagare riscatti, centinaia e centinaia di ostaggi.
Torniamo in Piazza San Pietro, la mattina solare e ventosa dell’otto aprile. Fra i tempi dell’Onu che abbiamo descritto ed oggi c’è un buco nero nel quale è precipitata la Storia risucchiata nel vortice di due follie immense e simmetriche. Da una parte il terrorismo, tutta la sua viltà e tutto il suo incalcolabile pericolo. Dall’altra lo scatenamento della guerra al suo più alto livello tecnologico, cioè distruttivo, come unica risposta al terrorismo. Il risultato è stato, e continua ad essere, una immensa quantità di morte e la minaccia continua che morte e altra morte continui a ripetersi, perché, nel frattempo, il mondo ha liquidato ogni altra occasione di contatto che non sia, come in un lugubre passato, la contrapposizione della forza. Le Nazioni Unite sono state ridotte a uno straccio. Ne è responsabile il comportamento disonesto dei suoi burocrati, il marcio quotidiano di cattive gestioni, la distrazione inspiegabile di tutti i governi europei (quello italiano ha abbandonato e mandato in pensione il solo ambasciatore che abbia lottato per ridare vita e ruolo al Consiglio di Sicurezza).
Lo stesso impegno distruttivo è stato, per due decenni, lo strumento della destra americana dei conservatori e dei neoconservatori che hanno sempre considerato l’Onu una inammissibile interferenza nelle decisioni della potenza americana. Per anni hanno vietato il rilevante contributo Usa (il 25 per cento di tutto il bilancio). In questo modo l’unica organizzazione del mondo che consentiva occasioni di incontro senza la guerra (come aveva sognato il Presidente americano Roosevelt dopo l’orrore della seconda guerra mondiale) è stata stremata e resa incapace di agire. Eppure la visione di Roosevelt si fondava su una persuasione fatta di terrore e di speranza: la terza guerra mondiale non ci può essere, oppure, con essa, finisce il pianeta.
Ecco ciò che è accaduto intorno alla cassa di legno chiaro con le spoglie di un Papa che - sulla guerra e la pace - ha visto in anticipo e capito con abbagliante chiarezza, testimone del prima (che lui, nella sua versione più dolorosa, aveva vissuto) e profeta sorprendentemente preciso del dopo.
L’uomo sempre celebrato e mai ascoltato sul tema tremendo della sopravvivenza, subito dopo morto, ha visto disporsi intorno a sé tutti i presidenti, i re, i governanti miti dei Paesi democratici, i despoti camuffati da elezioni, coloro che in tutto il mondo hanno in mano il destino degli altri. Una assemblea si è costituita spontaneamente all’improvviso intorno al corpo del Papa, in piazza San Pietro. La frase detta e ridetta, ‟c’erano tutti, teste coronate e capi di Stato, capi di governo e dittatori”, non è un messaggio mondano e neppure una testimonianza di cordoglio. È l’altra parte del lavoro continuo di Giovanni Paolo II, l’uomo che, prima della spaventosa vicenda irachena, ha pronunciato per tre volte - come in una preghiera - la frase: ‟Mai più la guerra”.
La presenza di tutti, su quella piazza, Bush a pochi passi da Khatami, Katsav tra i nemici mortali di Israele, la Siria e l’Iran, conferma il senso di quella frase. Un mondo troppo potente, troppo disuguale, troppo feroce, ma anche così carico di promesse, di ricchezze, di speranze, può salvarsi (e qui coincidono la salvezza fisica e quella morale) solo in una assemblea come questa che si è improvvisamente formata intorno al corpo del Papa.
Infatti qui ogni parte del mondo ha mandato, come pegno, come testimonianza, i suoi religiosi: cristiani, islamici, ebrei, buddisti in una serie di denominazioni impossibili da elencare.
C’era un capolinea del mondo in quella piazza. Come se tutti avessero capito, tutti sono venuti. O l’assemblea del mondo continuerà, a partire da oggi (si chiami Onu o in qualunque altro modo) i suoi lavori, o il mondo finisce qui. E questo, in un giorno di vento e di sole, è stato il suo funerale.
Ecco la parte non scritta - ma vista e constatata da tutti - del testamento di Giovanni Paolo II. Come in una profezia che va molto al di là di ogni utopia pacifista, i nemici si davano la mano e sedevano accanto. Vogliamo chiamare questo evento accaduto senza preparazione, senza trattati, senza il lavoro delle cancellerie, però accaduto davvero, nel giorno del funerale del Papa, il patto di pace di Roma?

Furio Colombo

Furio Colombo (19319, giornalista e autore di molti libri sulla vita americana, ha insegnato alla Columbia University, fino alla sua elezione in Parlamento nell’aprile del 1996. Oltre che negli Stati …