Luigi Manconi - Andrea Boraschi: Eutanasia. Il confine di quello che chiamiamo vita

18 Aprile 2005
La vicenda di Terri Schiavo è diventata - per responsabilità di tutti e senza vera colpa di alcuno - una ‟vertenza pubblica”. Che, come tutte le vertenze, ha sollevato polemiche e conflitti e ha interpellato le coscienze e le menti. Tutto ciò, sia ben chiaro, può essere letto - prescindendo per un attimo dalla vicenda umana che ne è all'origine - in termini positivi. È un bene che nel discorso pubblico trovino spazio temi di profondo spessore etico e che ci si soffermi a riflettere su ciò che sta rapidamente cambiando e che condiziona ogni risvolto intimo e sociale della nostra esistenza: il confine tra la vita e la morte. Questo confine si va spostando e, insieme, si va smarrendo; la potenza delle biotecnologie e il progresso della scienza medica intervengono sui tempi e le forme della nascita e della malattia, della sofferenza e della fine vita; talvolta, come nel caso di Terri Schiavo, intervengono in assenza e in supplenza della nostra volontà e per ‟difendere la vita”. Ma quale vita? Esiste un confine tra un'esistenza umana e una condizione ‟vegetativa” in cui l'incapacità di coscienza e di relazione, di comunicazione e di autodeterminazione faccia, dell'essere in vita, una esperienza insostenibile?
Questo confine, crediamo, è stato il vero punto controverso della vicenda. Che troppo spesso non lo si sia messo a fuoco, non è questione da poco; e, tuttavia, alcuni passi avanti forse sono stati fatti. Si è ragionato, nonostante tutto. E non si è trattato solo di una tenzone manichea tra un'America repubblicana e conservatrice, ossessivamente ‟pro life”, e un'America progressista e cinica, maniacalmente ‟pro rights”: tra coloro che credevano fosse giusto tenere in vita Terri vi erano anche molti liberal, molti democratici, molte femministe; così pure, tra quanti sentivano pietoso e giusto far cessare le sofferenze di quella donna, vi erano molti cristiani e non pochi repubblicani. Casi come questo, evidentemente, scombinano le posizioni in campo e finiscono per dare vita a opzioni articolate, non più riconducibili e riducibili alle dicotomie (sempre più inservibili, in vicende di tale natura) di destra e sinistra, di laicità e fede, di liberalità e conservatorismo.
Un bilancio sulla qualità e gli approdi del dibattito pubblico che questa vicenda ha alimentato, merita di essere fatto. E, tuttavia, la sofferenza di quella donna, la posizione crudele in cui si è trovata, di fatto espropriata di ogni diritto alla vita o alla morte, rischia (e rischierà ancora a lungo) di turbare ogni sereno ragionamento. Perché - questo è il punto - mentre il mondo intero si andava dividendo sulla sua sorte, l'unica voce che non era possibile udire era la sua. Mentre ognuno maturava un'opinione, un convincimento o semplicemente un dubbio, Terri Schiavo, probabilmente, non maturava alcuna decisione; e, anche qualora fosse stata in grado di pensare, anche qualora la sua coscienza (il suo ‟sapersi vita”) non fosse stata definitivamente annullata, non avrebbe potuto mai comunicare un qualunque suo volere, in alcun modo, a nessuno.
Due anni fa A Buon Diritto-Associazione per le libertà promosse un manifesto sulla questione; vi si leggeva, tra l'altro: ‟Si è creduto, per millenni, che la morte corrispondesse all'interruzione del battito del cuore, ma oggi sappiamo che il cuore può continuare a battere anche quando è sopravvenuta la morte cerebrale; e sappiamo che si può sopravvivere per dieci o vent'anni in stato vegetativo permanente. Sappiamo, in sostanza, che - grazie a macchine sofisticate - la persistenza della vita non corrisponde sempre all'esistenza di una persona dotata di intelligenza e di volontà: e capace di rapporto e di comunicazione.
Ne consegue che il confine tra cura doverosa e accanimento terapeutico è sottilissimo e può essere tracciato solo con difficoltà. (…) Da qui discendono interrogativi ineludibili: è opportuno fissare un limite a questo ‟protrarre la vita”? e qual è il ruolo della volontà individuale - del titolare del corpo malato - nell'indicare quel limite?
(…) Da qui la proposta del cosiddetto Testamento biologico o Testamento di vita. Esso consiste in una dichiarazione anticipata di volontà: un atto formale, che consenta a ciascuno, finché si trova nel possesso delle sue facoltà mentali, di dare disposizioni riguardo ai futuri trattamenti sanitari per il tempo nel quale tali facoltà fossero gravemente ridotte o annullate; disposizioni vincolanti per gli operatori sanitari e (…) e che, tuttavia, non siano in contrasto con la deontologia professionale del medico e con le realistiche previsioni di cura (…). Un atto che può essere revocato dal firmatario in qualsiasi momento e che può prevedere l'indicazione di una persona di fiducia, alla quale affidare scelte che l'interessato non è più in grado di assumere. Evidentemente, con il Testamento biologico si possono intendere cose assai diverse: dal solo rifiuto dell'accanimento terapeutico o di determinate terapie alla richiesta di interruzione delle cure in caso di grave patologia. Tutte rimandano a questioni come la consapevolezza del singolo e l'autodeterminazione individuale: tutte tendono a ridurre la soggezione e la solitudine del paziente e a incentivarne la capacità di conoscenza di sé, dei propri bisogni e dei propri limiti”.
Questo documento è stato sottoscritto da laici e cattolici, scienziati e filosofi, esponenti politici di destra e di sinistra: e si è tradotto in disegno di legge, presentato al Senato da due parlamentari, Antonio Del Pennino e Natale Ripamonti.
Successivamente, il Comitato Nazionale di Bioetica ha elaborato un parere, nel quale si sollecita un intervento normativo in materia; e la Chiesa cattolica - attraverso i cardinali Ratzinger e Pompedda - si è espressa decisamente a favore. Ma il percorso per giungere a una legge umana e razionale è appena agli inizi e sarà, prevedibilmente, lento e contraddittorio. Ciascuno può fare, se crede, la sua parte.

Luigi Manconi

Luigi Manconi insegna Sociologia dei fenomeni politici presso l’Università IULM di Milano. È parlamentare e presidente della Commissione per la tutela dei diritti umani del Senato. Tra i suoi libri …