Furio Colombo: Ricordando Saigon

29 Aprile 2005
L’aeroporto di Tan Son Nhat, un’ora da Saigon, era semidistrutto e deserto. Il Caravelle dell’Air France è atterrato regolarmente in mezzo ai fiocchi bianchi dei colpi di artiglieria che si vedevano dal basso. Il Caravelle ha una sua scaletta, dunque per sbarcare non c’era bisogno di servizi di terra. Non c’erano servizi di terra. Si sentiva sparare vicino, con i bassi martellanti della artiglieria più lontano, e non c’era nessuno. Noi sette passeggeri del Caravelle, giunti a Saigon per caso nel giorno della offensiva del Tet, (i guerriglieri vietcong, in quella festa vietnamita di Capodanno, hanno improvvisamente attaccato la capitale ‟americana” apparentemente inespugnabile, del Vietnam del Sud) abbiamo cominciato a camminare verso l’edificio dell’aeroporto senza sapere se correvamo il rischio di attraversare qualche linea di fuoco. Lungo il percorso c’erano postazioni di mitragliatrici (sacchetti di sabbia, armi intatte e abbandonate). L’aeroporto, due edifici in cemento, era in parte bruciato, bruciati i banconi, le sedie, un tetto forse sfondato da un colpo di mortaio. E non c’era nessuno. Ricordo che la nostra piccola fila ha seguito la striscia gialla delle indicazioni in inglese (‟dogana”, ‟passaporti”) benché mancassero sia i punti di controllo (banchi o sportelli) che le persone.
Gli altri passeggeri erano tutti vietnamiti e, non so come, sono scomparsi subito.
Sul piazzale finivano di bruciare i resti di due piccoli autobus. Assurdamente, c’era un taxi in attesa. Aveva il parabrezza forato da un proiettile esattamente al posto dell’autista. Ma l’autista era seduto al volante come in un qualunque giorno, in qualunque aeroporto del mondo. Ho filmato quel parabrezza per tutta la parte iniziale di un documentario (Tv 7, che allora dirigevo, con Fabiani alla testa del telegiornale) perché mi sembrava il simbolo di quel giorno incredibile di cui non sapevo ancora (e neppure il resto del mondo sapeva) niente.
Dall’interno dell’auto le scheggiature del parabrezza deformavano e quasi impedivano di vedere la strada. Ma all’autista non importava. Ha cominciato a guidare a forte velocità su una striscia di strada piena di buschi neri di esplosioni e di auto bruciate, fino a fermarsi di fronte all’hotel Caravelle. L’hotel - come un fortino - era circondato da soldati australiani dietro un muro di sacchetti di sabbia. Dall’altra parte della piazza si vedevano correre figure piccole e scure, si sentivano grida, colpi sparati a brevi raffiche, il ripetersi di ordini o slogan.
L’autista, dopo aver incassato i suoi cento dollari di ‟salario della paura”, mi ha dato l’unico consiglio utile: sventolare un fazzoletto bianco. Un ufficiale australiano ha fatto un cenno ai suoi uomini, che mi hanno indicato un passaggio. Dentro c’era un albergo normale, col portiere in divisa, le persone pronte ad assisterti, e una trentina di giornalisti, quasi tutti americani, intenti a scambiarsi birre e notizie.
Anche la camera era normale, in ordine, quasi elegante, una volta passato il punto di guardia di una mitragliatrice piazzata, chissà perché, proprio di fronte all’ascensore. Unica raccomandazione: non accostarsi mai alla finestra. Infatti non c’erano vetri e le schegge erano state ripulite con cura.
Ero entrato, senza saperlo, senza poterlo prevedere, sulla scena di un dramma che si stava appena compiendo: la guerra del Vietnam, che gli americani non potevano perdere, perché erano troppo potenti. La guerra del Vietnam che gli americani non potevano vincere perché la democrazia americana non avrebbe potuto sopportare la quantità di sangue e di distruzione che sarebbe stato indispensabile usare. Quello stesso anno, alcuni mesi più tardi, una intera massa di giovani americani si è rivoltata contro la guerra per le strade di Chicago, durante i giorni drammatici della Convenzione democratica. Erano passate poche settimane dall’uccisione di Robert Kennedy candidato democratico che voleva interrompere immediatamente la tremenda vicenda del Vietnam.
Il candidato repubblicano Barry Goldwater aveva appena detto, per enunciare il solo possibile programma di vittoria militare: ‟Li bombarderemo fino a ridurli all’età della pietra”. Con quella frase aveva stabilito - allo stesso tempo - il culmine e il limite della potenza americana. Può tutto. Ma deve?
La guerra nel Vietnam aveva alle spalle un grande Paese democratico. Giovani democratici, come il tenente John Kerry, tre volte decorato con il ‟Purple Heart” (l’equivalente americano della medaglia d’oro al valore militare italiano), diventano leader del movimento per la pace. Masse di giovani universitari che stavano per essere arruolati bruciano le cartoline precetto. Ai loro padri, che vanno la mattina al lavoro in lunghe carovane di veicoli sulle autostrade, viene detto di accendere i fari se intendono dichiararsi contro la guerra. In pochi giorni le Tv americane, invece di mostrare le ondate di traffico, mandano in onda una immensa manifestazione di pace: i figli nelle piazze cantano l’inno di Martin Luther King ‟We shall Overcome” e ‟Imagine” di John Lennon. E i padri vanno al lavoro con i fari accesi per dire no alla guerra.
Era una guerra di popolo, perché c’era la coscrizione militare obbligatoria (a quella guerra si è sottratto, con l’aiuto del padre, grande sostenitore della guerra, il giovane imboscato George W. Bush, attuale presidente degli Usa). Era una guerra di popolo perché i giornalisti erano presenti ovunque, e hanno cominciato prestissimo a ribellarsi ai comunicati dei comandi militari testimoniando, invece, quello che vedevano ogni giorno. Vedevano ciò che diceva il senatore Barry Goldwater, non con crudeltà ma con realismo: ‟Si può vincere, ma a patto di distruggere fino alla fine”. O, come il senatore repubblicano diceva, con espressione colorita e drammatica, ‟fino all’età della pietra”.
Poco più tardi un presidente repubblicano, Richard Nixon, assistito da un consigliere per la Sicurezza come Henry Kissinger, ha cominciato a trattare la pace con il nemico dichiarato, fino a un momento prima, il più grande pericolo del mondo libero. Nixon e Kissinger avevano visto il vero pericolo: scaraventare in un’area fuori controllo l’immensa potenza americana, e mettere sotto gli occhi del mondo un risultato di distruzione e di morte così spaventoso che nessuna democrazia avrebbe potuto tollerarlo.
Distruzione e morte senza fine, infatti, non sono stati tollerati dalla democrazia americana. Tra il 1972 e il 1975, persino in condizioni drasticamente negative dal punto di vista dell’immagine, la democrazia americana ha accettato non di perdere la guerra, ma di uscire dalla guerra. Perché quella guerra sarebbe diventata distruzione senza limiti e avrebbe stroncato l’autorità morale degli Stati Uniti sul mondo.
Era ciò che John Kerry, candidato presidenziale del Partito democratico, e cioè del partito di John e di Robert Kennedy avrebbe voluto per l’America di oggi e per il tragico coinvolgimento nella guerra in Iraq. È ciò che unisce il ricordo di ieri alla paura di oggi. Solo chi ama l’America, come hanno testimoniato John Kerry e metà degli elettori americani soltanto pochi mesi fa, desidera, chiede, spera, dentro e fuori i confini di quello straordinario Paese, il ritorno alla pace e alla guida esemplare del mondo libero, della più grande democrazia. Il problema, come allora, non è di vincere o perdere (come continua a credere, purtroppo, il segretario americano alla Difesa Donald Rumsfeld) ma di uscire dalla guerra per riprendere il titolo e l’autorità di potenza morale del mondo.

Furio Colombo

Furio Colombo (19319, giornalista e autore di molti libri sulla vita americana, ha insegnato alla Columbia University, fino alla sua elezione in Parlamento nell’aprile del 1996. Oltre che negli Stati …