Vittorio Zucconi: Bush e la storia. I rischi dell'Idealismo
La causa occasionale di questo exploit di iperrevisionismo storico è la sempre più spinosa e imbarazzante visita a Mosca con l’ex amico Vladimir, quello che tragici dilettanti della politica e della strategia avevano promesso di portare addirittura dentro l’Europa e la Nato e che ora apertamente rivela la propria natura di "semel cekista, semper cekista", per l’Impero sovietico e per i metodi di governo da Politbjuro del Pcus. Poiché l’intesa tripartita fra Urss, Usa e Gran Bretagna raggiunta nel febbraio del 1945, fu la chiave di volta sulla quale si resse fino al 91 il tempio inviolabile dell’impero sovietico, demolirne le ragioni storiche e la fondatezza morale è un modo chiarissimo e brutale di dire all’ex maggiore della polizia politica Putin che si scordi ogni ambizione di coltivare sogni di resurrezione e di ricostituire la "sfera di interessi" sovietica. Ma nella sortita di Bush c’è molto più che un giusto altolà alle illusioni revansciste di quel Vladimir al quale il presidente "aveva guardato negli occhi e capito che di lui poteva fidarsi", fraintendendo. In essa c’è la necessaria, inevitabile continuità con quella dottrina dell’"esportazione della libertà" come unico antidoto reale e duraturo alla guerra, che informa la visione e l’azione di questo presidente e dovrebbe garantire insieme la primazia dell’America sul mondo e la pace. Nel momento in cui la democrazia tenta dolorosamente di mettere radici nel sangue quotidiano dell’Iraq, e la Corea del Nord ostenta sfacciatamente quelle "armi di distruzione di massa" che Saddam non aveva, la Russia e le nazioni liberate da Mosca diventano il test fondamentale del successo e della praticabilità dell’interventismo neo conservatore. Democratizzare l’Iraq ai prezzi spaventosi che si stanno pagando, se poi un miserabile dittatore asiatico si arma di bombe e missili e la più estesa nazione della Terra, la Russia, ricade nell’imperialismo e nell’autoritarismo sarebbe la classica vittoria di Pirro per la dottrina Bush. Ma invadere la Russia e imporre un cambio di regime a Mosca, non è neppure immaginabile, dopo l’esperienza terribile dell’Iraq. Per questo il presidente deve rilanciare a parole la propria sfida, estendendola a quell’accordo di Yalta che rappresentò l’esatto opposto della sua visione del mondo e del ruolo che l’America dovrebbe giocarvi, un ruolo di fatto neorivoluzionario. Almeno fino a quando gli Usa saranno l’iperpotenza solitaria di oggi, senza alcun argine militare capace di bilanciarne la superiorità bellica (Washington spende per la Difesa più dei 25 paesi più sviluppati del mondo insieme) la tentazione d’identificare la propria forza con la ragione morale resterà irresistibile per questo e per futuri presidenti. Nel buttare tra i rifiuti Yalta, la sua logica spietata, l’abbandono cinico e pratico di popoli e nazioni di confine, come la Germania orientale, le repubbliche Baltiche, la Polonia, la Cecoslovacchia, l’Ungheria, la Romania, al dominio "fraterno" di Stalin e di Breznev, Bush dimentica naturalmente lo stato dell’Europa e le condizioni strategiche esistenti nel 1945. Il suo "idealismo", che è la versione buona e politicamente corretta della "missione dell’uomo bianco", può allungarsi sull’orizzonte del mondo perché non ci sono le divisioni corazzate di Stalin attorno a Berlino e milioni di soldati rossi a un passo dalle frontiere occidentali. Egli dimentica la necessità pratica e terribile di trovare un accomodamento con un nemico che si era dotato di arsenali nucleari devastanti e mostrava la volontà di usarli.
Bush, che ha orecchiato ma interiorizzato le formule dei neoconservatori, detesta le prudenza del pragmatismo. Preferisce i rischi dell’idealismo. Per lui, la concessione del protettorato sovietico sull’Europa orientale fu "un errore", che "noi non ripeteremo". Ma quali altri errori saranno commessi? Con quali conseguenze, se il mondo si ostinerà a non democratizzarsi secondo gli schemi della pax americana?
Che quell’errore abbia circoscritto la guerra - spietatamente e machiavelliamente - all’interno dei confini orientali, limitandola alle guerre di repressione interna in Germania dell’Est, in Ungheria, in Cecoslovacchia mentre consentiva alle nazioni europee occidentali di maturare verso la democrazia del consenso, non lo fa riflettere, né potrebbe, essendo lui uomo d’ideali e dunque d’azione. Il cinismo che guidò Roosevelt, Truman, Eisenhower, che fermò la mano di Kennedy tentato da un’invasione di Cuba e suggerì a Johnson e Nixon di non estendere la guerra oltre il Vietnam, non appartiene a questo irruente e ostinato texano, che considera tutto ciò che è stato fatto prima di lui "un errore" e sta conducendo la propria nazione, e con essa il mondo, in una navigazione a vista verso continenti sconosciuti, senza altre bussole che la convinzione di essere il più forte, dunque il più giusto.