Giorgio Bocca: Ma cosa vogliono i francesi del No?

13 Giugno 2005
Ho incominciato a dubitare dell'intelligenza politica della Francia ‟profonda”, gaullista e un po' fascista, dalla fine della Seconda guerra mondiale, quando le truppe francesi dell'interieur, come le chiamavano, cioè di quella resistenza prudente che aspettò per entrare in campo che a Parigi fossero arrivati gli americani di Patton e gli inglesi di Montgomery, si risvegliarono. E un mattino ci telefonarono da Aosta, da Susa, da Tenda che questi armigeri si apprestavano a calare per le valli piemontesi fino a Pinerolo o a Moncalieri come ai tempi di Luigi XIII.
Così, per fare un po' di grandeur, fingendo di non sapere che erano tutte terre occupate dai partigiani e anche dalle divisioni corazzate degli alleati. E dovette intervenire il presidente Harry Truman a ricordargli che se avessero fatto quella sciocchezza avrebbe interrotto gli aiuti americani.
Il referendum pro o contro l'Europa è un'altra cosa, ma ho l'impressione che risponda alle stesse pulsioni nazionaliste della Francia profonda che unifica la sinistra trotzkista al fascismo poujadista.
Se vogliamo prendere sul ridere questa pessima novità che è stato il referendum francese possiamo giocare fra mediocri nostalgie e mediocri interessi. Com'era bella, non è vero l'Europa delle nazioni? C'erano i confini e le dogane. Mio Dio che emozione tirar fuori il passaporto e rispondere alla domanda: "Rien a déclarer"? Qualche volta il passaggio di confine era anche poco piacevole: ricordo una notte alla frontiera fra Svizzera e Francia un doganiere francese ubriaco che inventava scuse per non lasciarci passare e io avevo con me mia figlia di quattro anni e nevicava e quel bestione doveva sfogare i suoi rancori nazionalisti.
Che emozione andare a cambiare le lire con i franchi, che delusioni a vedere che l'abitato di Clavière stava al di là della sbarra di confine e che il lago del Moncenisio era stato tolto all'infame aggressore e riunito alla patria francese.
È stato difficile, molto difficile, negli anni della finta grandeur gollista restare amici e ammiratori di quel grande popolo che è il francese e non vorremmo che il passato avesse la meglio, ritornasse.
Mi sbaglierò, ma già ora, nelle fotografie di vincitori della sinistra e della destra riunite, mi è parso di veder tornata un'antica boria, un'antica follia.
Ma che vogliono questi francesi del No? Una Europa che torna indietro di cent'anni ai nazionalismi e alle guerre che l'hanno distrutta e che le hanno tolto l'egemonia civile nel mondo?
Il sospetto che nella politica mondiale tutto si tenga, che ci sia una storia a cicli, di andate e ritorno fra progresso e regressi, ci era già chiaramente venuto con il successo politico di Silvio Berlusconi. Il fatto che la sua svolta reazionaria sia fortemente legata a quella americana di George Bush o a quelle europee in Germania o in Olanda non ci pare facilmente negabile.
Ma è una svolta drammatica, significa tornare all'Europa delle nazioni, delle frontiere, delle guerre; significa trasferire le incomprensibili follie odierne dei partiti, che almeno sono estranei alle armi, alle vecchie follie feroci degli eserciti, all'idiozia dei generali. Come se fossimo su un tapis roulant che va all'incontrario, e ci trascina verso un passato catastrofico.
Non si è vissuto bene negli anni della Comunità europea? Non è stata una decente vita senza parate militari e senza massacri? Nossignori, dobbiamo tornarci.

Giorgio Bocca

Giorgio Bocca (Cuneo, 1920 - Milano, 2011) è stato tra i giornalisti italiani più noti e importanti. Ha ricevuto il premio Ilaria Alpi alla carriera nel 2008. Feltrinelli ha pubblicato …