Massimo Mucchetti: Fiat. L'ipotesi dello spin off e quel rischio per l'auto

13 Giugno 2005
In questi giorni il titolo Fiat è tornato sui 6 euro. Effetto delle indiscrezioni, non accreditate dal Lingotto, sulla possibile scissione di Fiat Auto da Fiat Spa. In realtà, giuridicamente l’auto fa già capo a una holding olandese in grado di accogliere nuovi soci come dimostra l’esperienza con General Motors. Dal punto di vista industriale, poi, non è una necessità inderogabile: quando Fiat Auto guadagnava, non ci pensava nessuno. E nell’immediato rischia di scatenare nuove tensioni fra chi lavora negli uffici e nelle officine. Perché allora oggi le banche ci pensano e la Borsa ci spera?
I mercati finanziari, si sa, non amano l’incertezza. E così alcune banche vorrebbero isolare ciò che perde da ciò che guadagna. La scissione, infatti, determinerebbe da subito due distinte compagini azionarie: proporzionalmente uguali all’esordio, con l’Ifil degli Agnelli al 30% in entrambe; diverse in seguito. La prima potrebbe contare su camion, macchine agricole, robotica, siderurgia, servizi, ‟La Stampa”, le azioni di Mediobanca e Rcs e conserverebbe un fatturato di 26 miliardi di euro con un risultato operativo di 860 milioni. La seconda avrebbe ricavi per 20 miliardi con un risultato operativo negativo per 840 milioni ( dati 2004). Tutta intera, la Fiat capitalizza 5,7 miliardi. Ma la somma del valore netto delle sue parti oscilla tra i 6,4 e gli 8,5 miliardi. Ed è una stima che considera Fiat Auto un valore negativo: un handicap robusto quanto imprecisabile perché, se le attività valgono più o meno 3 miliardi, i debiti del settore, al momento sui 7 miliardi, dipendono anche dalle politiche finanziarie della holding.
Comunque sia, se si trovasse il modo di togliere questa mela dal cesto, tutte le altre sarebbero meglio apprezzate dalla Borsa e le banche potrebbero ragionevolmente sperare di ridurre la perdita sul ‟convertendo” che oggi si profila pari a 1,5 miliardi su 3. Liberato dalla mela cattiva, il gruppo Fiat potrebbe avere un accesso più facile al mercato dei capitali di debito e di rischio. Ma che ne sarebbe di Fiat Auto? Lasciata così com’è, verrebbe considerata alla stregua di una bad company . I soci scissionisti potrebbero consolarsi con la rivalutazione dei loro titoli dell’altra Fiat, ma per gli altri stakeholder ( dipendenti, fornitori, finanziatori e, perché no, l’Erario) sarebbe dura. Liquidare Fiat Auto, del resto, genererebbe al momento, secondo JP Morgan, una perdita di 2,4 miliardi. La mera scissione, dunque, non sta in piedi. E nessun banchiere, a onor del vero, la propone. Perché di scissione si possa parlare, bisognerebbe dotare l’auto di risorse sufficienti a sostenere un piano pluriennale che eviti l’ulteriore desertificazione dell’Italia industriale. Difficilmente queste risorse verrebbero dall’azionariato. Più realistico sarebbe cercarle all’interno dell’attuale perimetro Fiat. L’auto potrebbe giovarsi non solo della cancellazione di 3 miliardi di debiti grazie alla conversione del convertendo in azioni e dell’incasso di 1,5 miliardi da Gm, benefici dei quali già dispone, ma anche di ulteriori ingenti mezzi, acquisiti dalla parte sana magari a debito o anche quotando in Borsa il quotabile, per esempio l’Iveco, e " girati" a quella bisognosa. Mezzi aggiuntivi tali da cancellare il debito attuale dell’auto verso la tesoreria centrale e da lasciare anche una certa dote. L’ammontare della dote chiarirebbe se lo spin off è il solito modo per togliersi di torno un problema o l’inizio di un nuovo corso. Ma questa operazione finanziaria sarebbe tanto più credibile se, prima di procedere, i suoi fautori fossero in grado di indicare chi sarebbe nel tempo l’azionista di riferimento in Fiat Auto, con quali obiettivi e con quale impegno di capitali propri: un chiarimento non secondario quando le ipotesi spaziano dai cinesi allo Stato.
(con la consulenza tecnica di Miraquota)

Massimo Mucchetti

Massimo Mucchetti (Brescia, 1953) è oggi senatore della Repubblica. Ha lavorato al “Corriere della Sera” dal 2004 al 2013. In precedenza, era stato a “l’Espresso” per diciassette anni. E prima …