Alessandra Arachi: Sofri alla Normale di Pisa. Un colloquio

23 Giugno 2005
È un frastuono che non fa rumore quel martello pneumatico che non smette mai sopra le impalcature del restauro. Non per lui. Non oggi. Non qui. Adriano Sofri è tornato alla Normale di Pisa, per quello che in gergo si chiama articolo 21 e che per un detenuto vuol dire il permesso di uscire tutto il giorno dal carcere per andare a lavorare. Sono dieci i detenuti in articolo 21 al carcere di Pisa, tredici quelli in semilibertà. Adriano ieri mattina è uscito insieme con Stefano, il suo vicino di cella, tutti e due al loro primo giorno di lavoro. Stefano è andato alla cooperativa, farà il guardiano. Adriano alla Normale si occuperà della biblioteca, dei libri, dei nuovi fondi arrivati alla storica università. La finestra del suo piccolo studio può rimanere spalancata: è l’aria che ha la meglio su un frastuono che oggi non può fare rumore. Un ritorno il suo, Sofri, alla Normale di Pisa. Lei qui ha studiato, vero? ‟Sì, ma ben poco in realtà. Non ho fatto in tempo a prendere il diploma. Ero già laureato all’università, ma il diploma qui alla Normale non sono riuscito a prenderlo”. Perché? ‟Mi hanno espulso prima”. Come mai? ‟Ragioni disciplinari. Diciamo di donne. Portavo le donne nella camera del residence. Una donna, in realtà. Mia moglie Alessandra. Ma non significava nulla questo. Erano altri tempi, era il 1963”. Ma lei non è stato espulso forse permotivi politici? ‟Forse, alla fine. Però mi sembra più onorevole parlare di donne”. Era il 1963: lei era già un rivoluzionario? Eppure il Sessantotto era lontano. ‟Io nel Sessantotto ero già sposato, avevo due figli, molti anni di attività politica alle spalle. Avevo scelto l’idea di fare il rivoluzionario. Mi occupavo dei consigli di fabbrica”. Però frequentava la Normale... ‟Frequentavo laNormale e contestavo la carriera accademica. Ero un moralista, uno dei pochi: la carriera accademica mi sembrava una compromissione con il potere”. E adesso? ‟Sono molto felice di stare qui. E adesso a ripensarci sono stati davvero anni belli. I maestri di allora erano buoni maestri. Contestavamo la carriera accademica, ma con loro personalmente i rapporti erano buoni. Ricordo con piacere Cantimori: per lui io all’epoca ero inesistente. Lui per me rimane un punto di riferimento. Poi ci sono i maestri di oggi, fantastici. Molti sono i miei compagni di allora. Li ho incontrati stamattina”. Chi ha incontrato? ‟Carlo Ginzburg, Adriano Prosperi, Umberto Carpi. Poi tanti altri, magari meno noti, ma altrettanto cari”. Che sensazione le dà questo cambio di vita? ‟Quale cambio?” . La possibilità di uscire fuori dal carcere, di lavorare qui. Di poter tenere la finestra spalancata... ‟Vogliamo parlare della vita intesa come i mutamenti del corpo? Allora certo è cambiato molto. Ma se per vita intendiamo qualcosa di più intimo: cosa è cambiato?”. Lei è in permesso di articolo 21: esce dal carcere dalle otto del mattino alle otto di sera e torna soltanto per dormire. Un permesso che ha chiesto lei, era difficile aspettarselo... ‟E perché?”. Ma forse per il suo modo di porsi rispetto a questa condanna. Lei che ha sempre detto che non chiederà mai la grazia... ‟ Cosa c’entra? Non ho mai detto: ‘Io non chiederò mai permessi’. Per un sacco di tempo non li ho chiesti, semplicemente” . E non è strano? Lei poteva chiedere permessi per uscire già da tempo, ma non l’ha mai fatto. Un detenuto che ha la possibilità di uscire non è la prima cosa che chiede di fare? ‟ Ah sì? Pensate questo? Si pensa questo? Un detenuto non è un concetto astratto: ci sono migliaia e migliaia di detenuti nelle carceri. Ci sono migliaia e migliaia di storie dietro di loro. Bisogna starci dentro ad un carcere per capire. Mi mancherà ‟ . Che cosa? ‟La vita del carcere. Ma non fraintendiamo: non mi mancherà il bugigattolo dove ho passato più di otto anni, non sono folle. Mi mancherà il legame con le storie di chi ci vive dentro al carcere‟. Parla della galera come se fosse davvero fuori? ‟Assolutamente no. Sono un detenuto e la mia fine pena è nel 2016. Stavo soltanto spiegando la differenza tra un dormitorio e la vita in una galera con la gente che soffre, piange‟ . Lei ha sofferto? Soffre? ‟Sono stato imputato, poi condannato da innocente, anche se questo è un dettaglio che non importa più a nessuno. Adesso a distanza di un numero di anni di galera non certo infimo, otto anni e mezzo, ho scoperto, ad esempio, di essere additato come nemico pubblico numero uno del popolo padano. Questo, ad esempio, mi fa soffrire. E molto. Anche se... ‟. Anche se? ‟Anche se capisco che per molti di quelli che gridano "Sofri assassino", non sono altro che uno slogan. Non credo che quelli del popolo padano sappiano chi sia Adriano Sofri. Che conoscano la mia storia. Ma non si fa così. Non si trasforma una persona in uno slogan‟.

Alessandra Arachi

Alessandra Arachi, nata a Roma nel 1964, giornalista al “Corriere della Sera”, con Feltrinelli ha pubblicato: Briciole. Storia di un’anoressia (1994), da cui è stato tratto l’omonimo film per tv con la …