Vittorio Zucconi: Iraq. La strategia americana dal disastro alla politica

27 Giugno 2005
Dopo avere tentato per due anni e mezzo di ignorarli, di sterminarli, di incarcerarli, di licenziarli come ‟residuati del regime negli ultimi spasmi dell´agonia”, gli strateghi del sanguinoso pantano Iracheno si sono rassegnati a incontrare quel ‟nemico inesistente” che ogni giorno si fa più forte e aggressivo sul territorio. lo scrive il ‟Sunday Times”, giornale londinese non sospettabile di antiamericanismo, e lo conferma lo stesso Donald Rumsfeld: emissari del Pentagono, civili e militari, si sono più volte visti con leader della guerriglia, degli insorti, dei terroristi. L´etichetta poco importa di fronte al fatto che prendere contatto con loro significa fare esattamente ciò che Bush, Cheney e Rumsfeld non avrebbero mai voluto fare. Compiere il gesto simbolico che i governi italiani sempre rifiutarono di concedere al terrorismo di casa nostra: dare un riconoscimento politico al nemico. Riconoscere, almeno a una parte di esso, uno ‟status” di combattente e di legittimo interlocutore e tentare l´ipotesi di una soluzione politica a un disastro che la forza non riesce a risolvere.
Il Sunday Times, lo stesso giornale che ha rivelato quel "memorandum" segreto preparato per Tony Blair nel quale stava scritto senza giri di parole che gli americani avevano manipolato o inventato i fatti ‟per farli coincidere con la loro decisione di abbattere Saddam”, racconta che i primi incontri con personaggi della guerriglia sunnita, tra i quali gli emissari di quel gruppo, Ansar al Sunna che fece strage di soldati americani al rancio, sono avvenuti in una villa di Balad, a 40 chilometri da Bagdad, dopo settimane di trattative per timori di imboscate. Gli incontri si sono ripetuti almeno due volte, in questo giugno, attorno a tazze di tè. Li hanno smentiti, attraverso Internet, i capi di Al Qaeda in Iraq, i fanatici di al Zarqawi, fingendosi sdegnati dall´ipotesi che i puri e duri combattenti "jahidisti" possano bere una tazza di te con "gli infedeli" e gli "apostati".
Ma se verificare notizie del genere nel ginepraio della intelligence dei tripli giochi, è per definizione impossibile, la ipotesi di contatti "sotto banco" è non soltanto logica, è una mossa dovuta e urgente nella disperazione montante di questa capitale, Washington, impaniata nella propria retorica sempre più vuota e in un bilancio umano sempre più sciagurato. Di fronte al collasso del sostegno americano alla guerra, alla caduta rovinosa del reclutamento di rimpiazzi e alla inefficacia delle rassicurazioni pubbliche, i discorsi, neppure quello che Bush ha annunciato per domani sera implorando la "prima serata" alle network, bastano più. Il fronte interno, sul quale si combatte sempre la battaglia decisiva in tutte le guerre condotte da nazioni democratiche, sta passando dal patriottismo pavloviano delle prime giornate, alle perplessità scatenate dalla faciloneria della "missione compiuta", all´opposizione delle ultime giornate. I marine, il corpo scelto dell´Impero, hanno segnato nell´ultimo mese di statistiche complete, aprile, un terrificante ‟meno 42%” di nuove reclute, secondo il colonnello Charles Krohn vice direttore della sezione informazione del Pentagono. E l´istituto di ricerca Rasmussen, uno dei più rispettati del Paese, esce con un sondaggio che ha raggelato la Casa Bianca e provocato la decisione dell´appello in diretta alla nazione: il 49% degli americani pensa che sia stato Bush, e non Saddam Hussein (44%), la causa della guerra.
L´ostinazione con la quale Bush ripete il suo mantra, ‟we are making progress in Iraq”, stiamo facendo progressi, sbatte ogni giorno contro la dinamica obbiettiva della comunicazione di massa in una nazione libera, che sempre privilegia le "cattive notizie", sulle possibili "buone notizie". Anche l´effetto elezioni sul quale la Casa Bianca e i suoi alleati avevano contato per zittire definitivamente gli scettici, è da tempo svanito nella incapacità politica del governo provvisorio, nelle voci di corruzione dilagante, nelle dichiarazioni agghiaccianti della gente di Bagdad che chiede agli inviati del Washington Post davanti a crateri e ai cadaveri: ‟Per che cosa abbiamo rischiato la vita votando, per questo?”. A Rumsfeld, la commissione senatoriale per le Forze Armate chiede le dimissioni, che lui rivela di avere già offerto due volte a Bush, naturalmente respinte.
Il senso di disconnect, di scollamento dalla realtà che questa amministrazione manifesta e che ormai anche la vecchia ‟curva sud” dei tifosi neo con avverte, cresce con il ripetersi di proclami ottimistici, sgretolati il mattino dopo dalle notizie che bucano anche la assuefazione del pubblico alla guerra. Muoiono donne e uomini, gli attacchi della guerriglia si estendono e persino il fiore all´occhiello della dottrina bellicista neo conservatrice, l´Afghanistan che ci fu venduto come liberato e senza burqa, si rivela un campo di battaglia fuori controllo e con il burqa. I mesi di maggio e giugno sono stati i più sanguinosi per gli americani in Iraq, dopo il gennaio della grande offensiva terroristica. Sessantanove caduti in azione bellica in maggio, 51 in giugno, contro una media di 33 nei mesi di febbraio, marzo e aprile, verso un totale che ormai ha superato i 1.700 soldati uccisi e 14 mila feriti.
Questa amministrazione di guerra deve trovare altre formule e altre soluzioni che non siano l´orgoglio autolesionistico della leggendaria testardaggine bushista. Per questo, nel carnaio dell´Iraq, i primi "feelers", i primi sensori e tentacoli politici cominciano sicuramente a muoversi verso la galassia della guerriglia, per cercare un bandolo al quale aggrapparsi, un filo da cucire per arrivare alla soluzione che tutti vedono e nessuno osa ancora esplicitare.
Per arrivare cioè a un calendario di ritiro delle truppe che non precipiti quel popolo martire e incolpevole nell´orrore, cosa che può avvenire soltanto con una trattativa con il nemico, non con i diktat, con gli arresti e con le torture. E che permetta a coloro che tanto avevano irriso Kissinger e i "realisti" anni 70, di fare esattamente quello che Kissinger fece 32 anni or sono a Parigi. Fingere di avere vinto la guerra e salvare non il Vietnam o l´Iraq, ma l´America stessa, dagli errori dei propri leader.

Vittorio Zucconi

Vittorio Zucconi (1944-2019), giornalista e scrittore, è stato condirettore di repubblica.it e direttore di Radio Capital, dove ha condotto TG Zero. Dopo aver cominciato nel 1963 come cronista precario a …