Paolo Di Stefano: Il premio letterario? Era Strega diventa fata

01 Luglio 2005
Che cosa è successo? È successo quello che succede ogni anno quando si annuncia la stagione dei premi letterari più ambiti: Strega, Campiello e Viareggio. Si creano gli schieramenti editoriali e non c’è niente da fare: i giurati che votano per il libro migliore sono pochissimi. Gli altri, dopo aver sfogliato distrattamente i romanzi che gli arrivano in casa, aderiscono incondizionatamente alle pressioni del più forte e del più insistente. E alla fine, sistematicamente, c’è chi ne invoca l’abolizione o la sostituzione con riconoscimenti più seri.
Lo ‟scandalo” di quest’anno è che un piccolo editore, Quiritta, ha rivelato quel che già tutti sapevano, che cioè le grandi case editrici sono più forti. Il guaio è che l’ha fatto dopo aver tentato di stare al gioco, facendo le sue belle telefonate per chiedere il voto, e dopo aver constatato che la cosa non gli è riuscita. Così, il libro di Beppe Sebaste (‟il più bello”, secondo il suo editore) è rimasto fuori dalla cinquina dello Strega. Se fosse entrato, il bravo direttore editoriale Roberto Parpaglioni avrebbe anche lui aderito incondizionatamente. Ora giura che la sua casa editrice non concorrerà mai più e invita i ‟dissidenti” a creare un altro premio, ‟altrettanto importante” dello Strega, per premiare ‟il libro più bello” (su cui non ha dubbi, almeno per quest’anno). Niente di nuovo sotto il sole. In passato c’è chi ha proposto tout court di abolire tutti i premi e ripartire da zero. Nel ‘50, Moravia rifiutò il Viareggio per L’amore coniugale, dichiarando senza mezzi termini: ‟Non ho fiducia nel vostro premio come del resto in alcun premio letterario italiano” (ma lo vincerà nel ‘61 e andrà a ritirarlo). Calvino fece lo stesso nel ‘68 con un minaccioso telegramma a Rèpaci: ‟Ritenendo definitivamente conclusa epoca premi letterari rinuncio al premio perché non mi sento di continuare ad avallare con il mio consenso istituzioni ormai svuotate di significato”. Aveva già vinto nel ‘57. Alla fine degli anni Settanta, Benni disse che lo Strega è ‟sottocultura”, una fetta di torta che si spartiscono le grandi case editrici. L’altro ‟scandalo” di quest’anno è che, sempre allo Strega, Maurizio Maggiani, annunciato da mesi come il vincitore voluto dalla organizzatrice Anna Maria Rimoaldi, è entrato sì nella cinquina ma al terzo posto. Un sovvertimento inspiegabile per un premio i cui mormorii della vigilia si avverano puntualmente.
Dunque? Dunque, è stato detto, il gioco delle parti è andato in frantumi e il mondo letterario ha perso così le sue già fragili certezze. (Un’altra fragile certezza, per esempio, era il nome di Dario Fo tra i quattrocento giurati, ma poi risulta che il Nobel aveva da tempo dato le dimissioni e nessuno se n’era accorto).
Insomma, tutto sommato, se è successo qualcosa rispetto agli anni precedenti, è successo qualcosa di buono: le previsioni sono leggermente saltate e hanno portato alla luce lo ‟scandalo”. Perché lamentarsene? Meglio di così non si potrebbe immaginare. Ma facciamo un conto semplice semplice: prendendo in considerazione i finalisti di Strega, Campiello e Viareggio di quest’anno, qualcuno potrebbe mai dire con sicurezza che c’è un solo capolavoro davvero dimenticato? Non credo. Qualcuno potrebbe mai eccepire sulle scelte del Viareggio (La Capria, Arbasino e De Angelis)? Non credo. C’è qualcuno che possa rimproverare al Campiello di aver dato le sue preferenze a Celati? Non credo. E allora? Dove sta tutto questo scandalo?La verità è che i premi letterari (che un tempo - forse aveva ragione Calvino - erano ‟istituzioni svuotate di significato”) sono ormai l’ultimo baluardo della società letteraria (i maggiori ne sono quasi un monumento alla memoria). Le giurie, quando si riuniscono (lo dico da giurato), parlano finalmente di libri. Magari in modo tendenzioso, ma ne parlano e ognuno manifesta i suoi gusti, discutibili, discutibilissimi, certo. L’unico momento dell’anno in cui qualcuno, che non sia un editore o un autore (loro lo fanno tutto l’anno), alza una cornetta o attiva il proprio cellulare per sostenere un libro coincide con la votazione di un premio. Ma i tre maggiori sono solo la punta dell’iceberg. Ci sono centinaia di premi letterari che mobilitano migliaia di lettori cosiddetti popolari, i quali leggono, discutono, litigano prima di votare, e poi, una volta scelte le terzine, le quartine o le cinquine, incontrano i vincitori e chiedono loro un autografo e magari dopo l’autografo li interrogano su quanto hanno scritto. Alzi la mano lo scrittore che non abbia mai vissuto un’esperienza del genere e non ne sia rimasto gratificato. Ci sono il Napoli e il Chianti, il Carducci e il Flaiano, il Boccaccio e il Vittorini, il Brancati e il Lignano Sabbiadoro, il Bagutta e il Grinzane Cavour, il Camaiore e il Castiglioncello, il Comisso e il Palmi, il Procida e l’Alassio, il Calvino e il Nonino e chissà quanti altri premi che finiscono in -ino, -ano, -ello, -ucci. Sono il paese reale dei lettori. Perché abolirli, in un momento in cui le librerie somigliano sempre più agli ipermercati, le case editrici di cultura alle loro holding, le riviste letterarie si contano sulle dita di mezza mano e per avere una parvenza di dibattito culturale bisogna rivolgersi ai siti online e i carteggi letterari sono sotto forma di blog? Meno male che ci sono i cari, vecchi premi letterari, che ci ricordano che un tempo li hanno vinti Calvino e Pavese, Primo Levi e Volponi. E che oggi vengono portati a casa da La Capria e Arbasino. E ai quali perciò è difficile non augurare lunga vita, nonostante tutto.

Paolo Di Stefano

Paolo Di Stefano, nato ad Avola (Siracusa) nel 1956, giornalista e scrittore, già responsabile della pagina culturale del “Corriere della Sera”, dove attualmente è inviato speciale, ha lavorato anche per …