Paolo Di Stefano: Arancini, fichi d'India e l'amaro petrolchimico

11 Luglio 2005
Finita la scuola, a metà giugno, si partiva per il paese. Autosole, Taunus 12 M, si dormiva in macchina parcheggiati in un’area di servizio verso Napoli. Oppure ci si fermava solo per i rifornimenti e mio padre, con la testa che ogni tanto cedeva sul volante, guidava tutta la notte, fino all’alba, nei timpani i capricci gracchianti di una vecchia autoradio Blaupunkt. Noi sì, dormivamo. L’alba era bello vederla dal traghetto, nel naso l’odore di ferraglia e di salato. Qualche anno dopo, passando lo Stretto, avrei pensato a Conversazione in Sicilia e ai ‟piccoli siciliani da terza classe ‟, che sul ponte tiravano fuori da una tasca un’arancia e tutt’al più mangiavano ‟pane, aria cruda e formaggio”. Ma a quel tempo di Vittorini non sapevo ancora niente e noi eravamo siciliani da seconda: potevamo permetterci gli arancini. Guardando il mare, mangiavamo gli arancini, unti, rotondi, pieni di ragù. Finivano sempre troppo presto. La Madonnina ci salutava così: Vos et ipsam civitatem benedicimus . La nostra civitas era la sua, ma lei non poteva saperlo. Finite le manovre di discesa, le code, lo stridore dei treni sui binari, si ripartiva, gli occhi di mio padre tenuti aperti dall’ansia di raggiungere il paese. Era lì, a un certo punto, tra Augusta, Priolo e Melilli, che dall’alto si vedevano le ciminiere petrolchimiche. Gli ulivi, i mandorli, le pale dei fichidindia facevano parte di quel cimitero. Nell’estate del ‘68, Peppino lavorava alla Sincat da nove anni. Più o meno nei giorni in cui noi scendevamo per le vacanze, un elicottero ambulanza lo portava verso Milano, dove avrebbero tentato di salvarlo. Quando cominciai, nel ‘59, mi occupavo della manutenzione, togliere la polvere dai relais e dai trasformatori, pulizia apparecchi, controllo morsetti e viti. C’erano quasi cinquanta cabine elettriche alte come palazzi, centrali termoelettriche, vapore con turbine per la produzione di energia. Dicevano che si andava sempre in sicurezza, ma incidenti ne capitavano. Con un ragazzo sardo, un certo Masala, eravamo amici amici. Un giorno controllava la temperatura e il livello dell’olio di un trasformatore grande quanto questa stanza, si arrampica per andare a vedere il livello dell’olio, si avvicina a una parte in tensione e in quel momento si libera un fulmine tra la parte in tensione e il suo orologio, così cede la carcassa, si stacca un arco e lui va a sbattere su uno spigolo spezzandosi la spina dorsale. Rimane vivo, lo portano a Gaeta per educarlo a vivere su una sedia a rotelle ma a un certo punto si rifiuta di mangiare e muore. Sincat per buona parte della mia infanzia è stata una parola magica. Pura poesia futurista, petrolchimica. Società Industriale Catanese. In paese significava lavoro e stipendio fisso. Avere un impiego alla Sincat era la sicurezza raggiunta per i figli di quelli che fino ad allora avevano combattuto in campagna con i capricci della siccità o seguendo le pecore sulle montagne. Sincat era il moderno che irrompeva trionfante, il confine tra le generazioni. Il Paradiso petrolchimico in terra, anzi sul mare che da Catania porta a Siracusa. Era quel puzzo di uova marce che ci assaliva a Priolo e ci diceva che eravamo quasi arrivati al paese: ancora una cinquantina di chilometri. Dal ‘63 fui meccanico, riparazione pompe, la sala quadri dava il permesso scritto, telefonava all’esercizio e diceva: preparate le pompe per smontarle. Si lavorava duro, maal paese si viveva benone, niente a che vedere con quelli che ancora stavano in campagna a combattere con la fatica dell’acqua che non c’era mai. In mensa c’era sempre il pasto caldo anche per i turnisti, mentre quelli del ciclo continuo non si fermavano mai. Mi ricordo che c’erano pure le baracchette, quando arrivava il segnale uscivamo e poi facevamo il giro, se esce qualcosa e c’è puzza si interviene con la maschera per evitare che i prodotti brucino, scaricare e bonificare le tubature con l’azoto. Una volta un operaio sbagliò, invece di mandare aria nella cisterna mandò azoto, poi scese per controllare e si sentì male, andò anche l’altro emorirono in due. In quei casi si muore di asfissia. Perché ci sono quattro valvole: azoto, vapore, aria, acqua e quello avrà fatto di testa sua. Bisogna tener presente che se si fermano gli impianti, ci vuole tutto un lavoro anche di quattro giorni e quattro notti per ristabilire le cose come stavano, per questo gli scioperi e gli incidenti sono una sciagura. Quante volte d’estate, tornando al paese, sentivamo dire: se Dio vuole, dall’anno prossimo c’è la Sincat. Per nostro cugino Peppino, Dio volle nel ‘59, quando aveva 21 anni. Dopo quasi 40 anni, porta ancora, sul volto sfigurato e sulle mani, i segni di quell’incidente. I pericoli sono che la corrente non si vede e non puoi difenderti se non sei sempre lucido. Era il 21 giugno 1968. Alle 15 e 30 dovevamo fare una manovra sull’alta tensione, c’erano trasformatori che trasformavano diciamo da seimila a duecentoventimila. Servivano per fornire energia elettrica allo stabilimento chimico e petrolifero. Insomma, quel giorno dovevamo inviare corrente in un posto e toglierla da un altro posto, fare una manovra per spostare l’interruttore e il sezionatore senza però far mancare l’elettricità. Io ero in sala quadri CS 2, all’interno, facevo il quadrista elettrico. Aprendo il sezionatore, che è fatto di tre lame per ogni fase, si è alzata una fiammata immensa, io stavo lì a settanta centimetri e dietro avevo il muro, perciò non ho potuto evitare la fiammata, in più a quel tempo fornivano tute a base di liacryl per risparmiare, tute che prendevano fuoco subito. Oltre il cinquanta per cento bruciato, gambe, faccia e mani, le mani completamente perché con le mani stavo sul comando meccanico. Era successo che l’assistente sbagliò la sequenza di aprire e di chiudere l’interruttore, insomma ha avuto un abbaglio, era convinto che era chiuso e allora mi dice di aprire, io apro e vedo tre coltelli che vengono verso di me, vidi con gli occhi la sfiammata che mi aggrediva e capii subito. Sembra una barzelletta ma sul momento non sentivo dolore, però ero lucido, mi allontanai da solo, poi mi fermai mentre la gente correva. L’assistente intanto aveva capito l’errore, si lasciò prendere dalla disperazione e si mise a fuggire, reazione umana, reazione fisica, in più metteteci che era in rottura con la moglie e certi errori possono capitare per la tensione. I fichidindia, i mandorli e gli ulivi sono sempre lì, piantati in quel cimitero lungo la superstrada che porta da Catania a Siracusa, più resistenti degli uomini. Bruciati un po’ dal sole testardo dell’estate, un po’ dagli acidi che hanno invaso la terra. Tutte le persone del reparto correvano verso di me che ero una torcia accesa, ho fatto ancora qualche passo, qualcuno arrivava con bombole antincendio di CO2 che se hai già perso la pelle, come nel mio caso, è un veleno, ti intossica perché la carne lo assorbe coma una spugna. Le ultime cose che ricordo mentre stavo in piedi sono gli urli di due compagni: le calzette! le calzette! Caddi nel sonno e quando mi svegliai ricordo gli scalini per salire sull’autoambulanza e la pelle che mi cadeva sulle gambe, sembra una barzelletta ma ancora non sentivo dolore, sentivo freddo, perché il CO2 ha la temperatura del ghiaccio. Sentivo pure altri che gridavano: no, Pippo, no!, e vedevo uno che si metteva le mani nei capelli. Sull’ambulanza, l’effetto del CO2 comincia a passare e mi sento come un pesce fritto, e così quando arrivo all’ospedale di Siracusa io sto dormendo ma sento la voce del dottore che dice: questo non passa la notte. È passata una notte lunga quasi 40 anni. E se Dio vuole ne passeranno altre.

Paolo Di Stefano

Paolo Di Stefano, nato ad Avola (Siracusa) nel 1956, giornalista e scrittore, già responsabile della pagina culturale del “Corriere della Sera”, dove attualmente è inviato speciale, ha lavorato anche per …

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