Paolo Rumiz: Srebrenica. Cronaca di un massacro che nessuno vuol ricordare

11 Luglio 2005
Tutti noi sappiamo dov’eravamo l’11 settembre 2001, quando arrivò la notizia dell’assalto alle Torri gemelle. Pochissimi ricordano dov’erano l’11 luglio 1995, quando cadde Srebrenica e iniziò l’ultimo massacro del secolo. Fu il triplo dei morti rispetto a New York, ma quasi nessuno se ne accorse. Non c’erano immagini, in quei giorni, in tv. Srebrenica, che roba era? Un buco tra le montagne dal nome impronunciabile. L’Europa era al mare, la Bosnia non faceva notizia, la guerra stava finendo. E poi, a che pro sapere? Eravamo complici. L’Europa, le Nazioni Unite, la Nato. Avevamo lasciato che il massacro avvenisse. Dieci anni dopo, sappiamo. I criminali al tribunale dell’Aja hanno parlato. Sappiamo che migliaia di musulmani bosniaci (musulmani solo per l’anagrafe, va ripetuto, in Jugoslavia il fattore religioso era secondario) erano fuggiti a Srebrenica fin dal ‘92, all’inizio delle ostilità, perché l’Onu l’aveva dichiarata zona protetta. Fuggiti, dunque, per salvarsi la pelle. Invece, Srebrenica è diventata la loro trappola. Un lager sovraffollato di denutrizione e isolamento. Un filmato ci inchioda alla nostra vergogna. Il generale francese Philip Morillon, capo dei Caschi Blu, dice agli abitanti: ‟Tranquilli, sarete protetti”, e quando questi gli offrono il loro pane miserabile fatto di corteccia di nocciolo, decide di fingere ancora. ‟Salubre”, gongola, ‟ottimo per la digestione”. E difatti li tradisce. Sequestra loro le poche armi di autodifesa, e non fa lo stesso con gli assedianti, infinitamente più equipaggiati. La cronaca di una morte annunciata inizia allora. Tre anni di solitudine cosmica, di impotenza, consumati in una valle tetra, fatta apposta per impazzire. Li racconta Emir Suljagic nel libro Cartolina dalla tomba appena uscito a Sarajevo e di prossima apparizione in Italia con l’editore Scheiwiller. ‟La gente”, scrive, ‟aveva scelto quel luogo per sopravvivere, e questo rende la loro morte più terrificante”. Suljagic si salva per caso. Viene risparmiato perché il generale Ratko Mladic, latitante, accusato numero uno per il massacro, l’ha voluto come interprete d’inglese. La guerra è ‟mors tua vita mea”. A Srebrenica non è guerra. Uno dei contendenti sa di essere stato venduto in anticipo. I Caschi Blu olandesi di stanza in paese stanno a guardare. Quando possono, si godono le donne dei vinti, i musulmani. E fanno baldoria con i vincenti, i serbi, dei simpaticoni. E appena - a fine estate del ‘94 - questi ultimi cominciano a premere sulla città, loro calano le brache. Chiedono allo stato maggiore Onu un bombardamento dissuasivo sugli assedianti, ma non ottengono nulla. Le Nazioni Unite hanno già perso l’onore.
Quando l’11 luglio ‘95 le truppe di Mladic occupano l’enclave, la gente terrorizzata si riversa nella sede dei Caschi blu. ‟Difendeteci”, implorano, ‟voi ci avete preso le armi, dunque voi ci difendete ora”. Ma i soldati Onu non fanno nulla. Piangono lacrime di coccodrillo, dichiarano la loro impotenza. Non hanno l’autorizzazione a sparare. E il panico si diffonde. Mladic convoca in un albergo due ufficiali Onu. Per intimidirli, fa sgozzare un maiale nel cortile appena fuori la sala, sbatte sul tavolo l’insegna spezzata del Comune di Srebrenica e intima: ‟Adesso farete quello che dico io, non me ne frega niente dei vostri capi”. Spadroneggia, è abituato all’impunità. La ottiene ancora, gli alti comandi Onu sono paralizzati, non mettono mano alle armi nemmeno allora. Ha tutto ciò che vuole: la consegna dei maschi validi, persino la benzina per evacuarli. Il resto è l’indicibile, l’inimmaginabile, disperso in brandelli di sequenze, articoli, intercettazioni, testimonianze, filmati amatoriali. 11 luglio, Potocari, periferia di Srebrenica. La gente è ammassata attorno alla sede dell’Onu. Arrivano soldati serbi con pastori tedeschi, prelevano uomini. La sera la gente comincia a urlare, tutti si alzano in piedi, chiedono che succede. Altri uomini sono portati via, a volte arriva uno sparo, poi silenzio, poi altre grida. Così per tutta la notte. Alcune donne impazziscono dalla paura, corre voce che qualcuna si sia impiccata. 12 luglio, località imprecisata. Un video mostra sei bosniaci che scendono da un camion e tremano di terrore. Quelli in divisa non sono soldati ma poliziotti serbi giunti da Belgrado. Corpo d’élite, detti Skorpions. ‟Guarda, questo s’è cagato addosso”, ridono di un condannato. Si sente la voce dell’operatore che dice agli agenti di spicciarsi perché ha poca batteria. Poi, la raffica sulla schiena di un ragazzo, e un pope di nome Gavrilo che benedice. Non i morituri ma gli assassini.
Altre testimonianze, raccolte da Andrea Rossini dell’Osservatorio del Balcani, il miglior portale d’informazione sul Sudest Europa. 13 luglio, frazione di Kravica. Mille, forse millecinquecento civili sono ammassati in un magazzino e fucilati. Il generale Borovcanin telefona al generale Krstic, brontola che ci sono ‟altri 3500 pacchi da distribuire” e che servono altri trenta soldati. L’altro protesta che non li ha, manda i colleghi a farsi fottere. Ma il primo insiste. Dice ‟pacchi”, ma intende uomini. E ‟distribuire” significa ovviamente ‟liquidare”. 15 luglio, un prato sulle sponde della Drina. Prigionieri maschi ammassati, costretti a sdraiarsi per terra e gridare ‟Viva il re”. Vengono scherniti: ‟Non avrete la cena, tanto non ne avrete bisogno”. Poi, il trasferimento in un’aula piena di gente. Racconta un sopravvissuto, creduto morto dopo la fucilazione: ‟Eravamo assetati e coperti di piscio, qualcuno ha tentato di aprire la finestra ma una guardia ha aperto il fuoco e fatto sei feriti”. I prigionieri sono denudati, ammanettati, caricati su camion, portati via. 16 luglio, Zvornik, zona serba. Il plotone di esecuzione deve liquidare oltre mille uomini. Usa una mitragliatrice, che però mutila i prigionieri senza ucciderli, e obbliga i soldati a giustiziare la gente con colpi singoli. Nessuno viene risparmiato. Poi tocca ad altri settecento uomini, chiusi in un cinema. Il plotone è esausto, qualcuno chiede di essere sostituito. Si sentono le raffiche in città, ma la gente fa finta di nulla. Dei fatti di luglio sappiamo tutto, ormai. Da qualche settimana anche in Serbia si fanno i conti con la verità. Ma l’informazione sul ‟come” non aiuta a capire il perché di quel tradimento.
La pace di Dayton, ibernando la Bosnia al 1995, non ha risolto nessuno dei nodi politici di allora. Perché la Nato non è intervenuta? Perché le Nazioni Unite sono scomparse? A che serve questo anniversario se, di fronte all’Iraq e all’Afghanistan, i Balcani scompaiono dalle agende della politica? Che futuro immaginiamo per queste terre dietro casa? Irfranka Pasagic, psichiatra, premio Langer 2005, è tornata a lavorare nella sua città per curare i traumi della gente. ‟A Srebrenica”, ne è certa, ‟la cappa di orrore permane” C’è chi vive accanto all’assassino dei suoi figli, chi lo incontra ogni giorno per strada. I criminali sono in circolazione, hanno cariche pubbliche, si sono sfacciatamente arricchiti. E i giovani vanno ‟in scuole sporche di sangue, in palestre che hanno conosciuto esecuzioni”. ‟La città continua a morire”, racconta Roberta Biaggiarelli, che lavora a un documentario sull’evento. ‟La vita è nera come la terra che copre mio figlio” le ha detto una madre dimenticata in un campo profughi. E mentre nelle camere mortuarie di Tuzla e Visoko ancora si accumulano candidi sacchi pieni di ossa senza nome, i banditi smascherati già schierano i morti serbi in un contro-monumento, una gigantesca croce ai Caduti. A troppi fa comodo che non si sappia la verità su Srebrenica.

Paolo Rumiz

Paolo Rumiz, triestino, è scrittore e viaggiatore. Con Feltrinelli ha pubblicato La secessione leggera (2001), Tre uomini in bicicletta (con Francesco Altan; 2002), È Oriente (2003), La leggenda dei monti …