Furio Colombo: Dopo Londra. Quale pace, quale guerra

18 Luglio 2005
C’è intorno a noi cittadini un gran traffico di parole, dopo il tremendo evento di Londra, una sorta di grande esodo dai percorsi addolorati e pieni di orgoglio e di dignità che erano seguiti al settembre americano e al marzo spagnolo. È vero, il fenomeno di maxi-discussione a vuoto sta deflagrando soprattutto in Italia, vuoi a causa del pericolo che tutti temiamo, vuoi a causa del clima di confusione che è sempre stato tipico del governo, della maggioranza e dei commentatori di osservanza berlusconiana (con la sola eccezione del ministro Pisanu). Ci troviamo di fronte a un intrico di contraddizioni che a volte si susseguono, una dopo l’altra, nella stessa argomentazione rendendo impossibile un punto di approdo logico e, soprattutto, impedendo di contribuire con proposte utili. Vediamo.
Prima contraddizione. Di un evento spaventoso come quello di Londra (un ‟black out” e due morti, all’inizio; 40 morti prima di sera, ottanta a metà settimana e alla fine ancora non sappiamo) si deve parlare o si deve far finta di niente? Avrebbe il mondo preso coscienza della svolta brutale avvenuta nella storia con l’attacco alle torri di Manhattan se quelle torri fossero state più basse, e fosse stato possibile coprirle di teloni e vantare il comportamento ‟compassato” di cittadini invisibili, dopo l’11 settembre?
È evidente che la felpata strategia inglese, del silenzio quasi perfetto, delle ambulanze senza sirene, dei poliziotti che si muovono lenti e parlano solo a voce bassa davanti alle telecamere delle TV che si adeguano (compresi i mille giornalisti ‟free-lance” che non dipendono dalla BBC e tutti concordano, che, a differenza dell’America e a differenza della Spagna, qui, come in Iraq, non si deve vedere nulla) è stata preparata in anticipo e con molta cura, fino ai dettagli. Avranno informato gli alleati di questo nuovo corso del silenzio? Questo corso è mai stato utilizzato da una democrazia in passato? Certo, è possibile che sia utile, il dibattito è aperto.
Ma tanti di noi hanno paragonato il coraggioso e calmo temperamento inglese del 7 luglio (che forse invece è il risultato di una attentissima regia di controllo delle notizie) con la eroica risposta di un’altra generazione di inglesi, ai selvaggi bombardamenti tedeschi del 1940 e del 1942. Perché lo abbiamo fatto? Perché (anche i più giovani di noi) quei bombardamenti li abbiamo visti in centinaia di documenti visivi prodotti dai cinegiornali e dal governo inglese, per mostrarli agli inglesi, mentre la tragedia stava avvenendo, per informarli, motivarli e unirli. Sapere tutto era la politica anti-fascista del tempo in una spaventosa guerra in cui hanno perduto coloro che non sapevano nulla, che conoscevano solo la propaganda. Qualcosa è cambiato? Quando? Qualcuno vorrà parlarcene?
Seconda contraddizione. È guerra o non è guerra? Accettiamo il fatto umiliante che questa contraddizione sia esclusivamente italiana, di una tradizione culturale in cui le parole non sempre corrispondono alla realtà. Il fatto è che lo stesso quotidiano che ha colto ogni opportunità per inveire contro la sinistra italiana quando diceva «questa è guerra», ripeteva con vigore e tenacia che l’Italia si era imbarcata in una missione di pace, e dava del traditore a chiunque osasse dire che, no, eravamo parte di una guerra e che di guerra occorreva discutere in Parlamento, quello stesso quotidiano il giorno 12 luglio ha pubblicato in prima pagina un articolo di Paolo Guzzanti (‟Una guerra da vincere”) che dice con sincera passione: ‟È una guerra. È una guerra che l’America prima, e poi l’Europa subiscono, di cui sanguinano e che sono costretti a combattere e a vincere. Quando un Paese si trova di fatto in stato di guerra, di questo si deve tenere conto anche dal punto di vista giuridico”. Ha ragione. Ricordate le proteste indignate di congiunti dei caduti di Nassiriya che facevano sapere di non poter ricevere ‟il trattamento di guerra” per i loro cari perduti in combattimento perché la spedizione italiana risultava listata come ‟missione di pace”?
Certo, moralmente ogni guerra può essere definita, con civili intenzioni, missione di pace, nel senso che intende combattere contro coloro che hanno portato guerra per tornare ad avere pace. Ma, quanto allo stato giuridico dell’essere in guerra, come osserva giustamente Guzzanti, occorre poter e dover trarre da quel fatto - se accertato e dichiarato - tutte le conseguenze. Nel nostro caso, prima di domandarci quali sono quelle conseguenze (ed è una domanda capitale, da cui tentare di estrarre una strategia di comportamento) occorre rimettere a posto le parole, altrimenti viviamo, come tutti, una situazione immensamente difficile, ma - per noi italiani - sepolta nella negazione e nella confusione. E a giorni alterni stiamo costruendo la pace (che, purtroppo, come si vede, non è possibile) e stiamo affrontando una guerra. Adesso ci viene chiesto bruscamente, da destra, di smettere di far finta di niente e di dire, insieme a loro, che siamo in guerra. Esattamente ciò che hanno detto a milioni, nelle nostre piazze, i ragazzi con la bandiera della pace, sbeffeggiati volentieri da tutti. Vi ricordate di Fini? Due anni fa, da Vice Presidente del Consiglio, disse che ‟la sola guerra da dichiarare è la guerra contro i pacifisti”.
Tutto questo sembra un gioco pettegolo del giornalismo ma non lo è. Lo testimonia il fatto che il grido ‟dobbiamo dichiarare lo stato di guerra‟ viene dal leghista Calderoli, che un giorno sarà straordinaria materia prima per un teatro dei burattini (una specie di Mangiafuoco con la camicia verde), ma adesso è Ministro della Repubblica. Lui vuole quella dichiarazione insieme con il direttore del giornale ‟Il Tempo”, Bechis, per cominciare a ridurre, finalmente, tutti i diritti, cominciando da quelli di parola ‟e di pensiero” (Bechis ha detto proprio così sul suo giornale l’11 luglio). Dunque stiamo camminando lungo una linea pericolosa. Da un lato rischiamo le loro bombe come tutti gli altri Paesi in guerra. Dall’altro rischiamo le pulsioni liberticide nostrane. Si intravede un pericoloso asse Guzzanti-Calderoli, più o meno dove passa il sistema nervoso centrale di Forza Italia e della sua maggioranza.
Terza contraddizione. È o non è una guerra contro il Cristianesimo? Che lo sia lo sostiene enfaticamente la parte ateo-credente della destra (ormai ha deciso: mai senza Ratzinger). Che non lo sia lo dice la migliore cultura cattolica (vedi Alberto Melloni su il ‟Corriere della sera”, 12 luglio) facendo notare quanto sia vuota di verità l’affermazione secondo cui il terrorismo non è mai cristiano. Melloni ricorda la decennale lotta dell’IRA cattolica contro irlandesi e inglesi protestanti, segnata da centinaia di atti di terrorismo. L’America potrebbe ricordare che i soli atti gravi di terrorismo interno avvenuti in quel Paese prima dell’11 settembre (100 morti a Waco, Texas e 168 a Oklahoma City) sono stragi organizzate da ‟milizie armate cristiane” che facevano capo a un pericoloso gruppo, non si sa se dissolto, detto ‟Order” o ‟Christian Identity”. Il fatto che la domanda (è guerra anticristiana?) venga sollevata nel vuoto e nello sbandamento del dopo Wojtyla, dimostra comunque che accanto alla guerra delle bombe, a noi italiani tocca una pericolosa guerra delle parole usate a casaccio.
Dichiarare che si tratta di assalto alla Chiesa cattolica alzerebbe di molto, anche prima di una bomba, la tensione italiana e il ricatto tipico della destra. O stai con Calderoli e i suoi intenti persecutori, o sei contro la Chiesa e il Papa.
Riconosco che questa è una semplificazione brutale. Ma i tempi brutali favoriscono purtroppo le semplificazioni.
Quarta contraddizione. Un piano antiterrorismo, di cui tutti riconosciamo di avere bisogno (alcuni di noi credevano che già ci fosse), si costruisce nei dettagli (pedinando o acciuffando sospetto per sospetto, clandestino per clandestino, chiudendo frontiere come desiderano i terroristi) oppure cercando una visione di insieme che, dalla interpretazione di un fatto, ti fa risalire ad altri fatti, a nomi, organizzazioni, complici, fonti politiche e fonti finanziarie?
Giustamente Lucia Annunziata cita (‟La Stampa”, 12 luglio) una esperta americana che dice: ‟Una volta che hai catturato gente sospetta, esattamente cosa ci fai? È una domanda cruciale, degna di restare nella storia di questi brutti tempi perché si situa alla biforcazione delle due strade, civiltà e tortura, diritti civili e Guantanamo.
Giustamente la giudice Forleo, quando vede un giovane extracomunitario sbattuto a terra e ammanettato da poliziotti e passanti perché sprovvisto di regolare biglietto del metrò di Milano, si getta nel gruppo, si identifica, e benché maltrattata, insiste nel difendere i diritti civili di quella persona ma anche la Costituzione del nostro Paese. Non sarebbe giusto vedere nella giudice Forleo un pezzo - piccolo, se vogliamo ma molto utile, molto efficace - di un piano contro il terrorismo?
La contraddizione si aggrava quando si susseguono senza imbarazzo prima le lodi per la regina d’Inghilterra e per il Primo Ministro Blair che garantiscono: ‟nessuno toccherà i diritti civili in questo Paese”. E poi una concitata invocazione di interventi restrittivi di ogni genere (”anche di pensiero”, suggerisce il direttore de ‟Il Tempo” Bechis).
Mi rendo conto che in questa lunga disamina delle contraddizioni che stanno segnando la conversazione italiana dopo Londra, non ho detto una parola sul terrorismo. Che fenomeno è, come si forma, come si alimenta, come si combatte, visto che non è uno Stato, non ha un territorio e non ha il volto del fanatico islamico che esegue, ma, più probabilmente, di ingegneri, di militari (o ex militari), di spie di doppio e di triplo gioco, di schegge di burocrazie e regolari e irregolari, di frequentatori di buone banche del mondo, di buone borghesie, di buone scuole, di buoni gruppi societari, con documenti impeccabili e nessuna ragione di vivere da clandestini?
Leggi speciali? Quali? Quelle americane sono dure dopo l’11 settembre. Ma la storia e le garanzie di opinione pubblica di quel Paese è molto diversa, molto lontana dalla tragica fragilità di un Paese ex fascista come l’Italia. Negli USA, anche adesso, prevalgono giudici come la Forleo. E i cittadini non applaudono l’arresto violento di un giovane trovato senza biglietto del metrò, neppure in queste ore, neppure adesso.
Ma, come si vede, del terrorismo e del che cosa fare per vincerlo, dobbiamo ancora cominciare a parlare.

Furio Colombo

Furio Colombo (19319, giornalista e autore di molti libri sulla vita americana, ha insegnato alla Columbia University, fino alla sua elezione in Parlamento nell’aprile del 1996. Oltre che negli Stati …